Quando la scuola raccoglie i fragili
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Quando la scuola raccoglie i fragili

La lettera della preside del liceo Bottoni di Milano ai bocciati mostra il lato umano ed educativo della scuola, restituendo attenzione a chi arranca e cade. Ed è il punto da cui ripartire per ricostruire una scuola di sana e robusta costituzione

La preside Giovanna Mezzatesta, certamente sommersa di burocrazia e dagli impedimenti dirimenti che in questi giorni toccano a ogni dirigente scolastico, ha trovato il tempo di dedicarsi ai suoi studenti, e propriamente ai suoi studenti più fragili, scrivendo ai non promossi una lettera che sta avendo la visibilità e l’eco che merita.

Innanzitutto, la preside intende mostrare il lato più emotivo della situazione: l’immagine dello studente che apprende dal computer o dallo smartphone la bocciatura rende l’idea della solitudine di quel momento e, insieme, del piccolo fallimento di cui la scuola, proprio per parola della preside, è in parte responsabile, perché non è riuscita a insegnare, in ben nove mesi di lezioni, quanto servisse, quanto bastasse per il successo scolastico del singolo. Ancora, la professoressa Mezzatesta rivela quanto sia difficile, per molti docenti, sancire una bocciatura, mostrando anche in questo caso il lato umano e sofferente di una decisione inevitabile, in sede di scrutinio, ma mai presa a cuor leggero, che coinvolge integralmente persone che, in ruoli diversi, hanno condiviso almeno un anno insieme, tra voti, assenze, delusioni, inseguimenti, recuperi mancati, scoraggiamento, epilogo.

La scuola e con lei altre istituzioni – si pensi agli ospedali – da almeno venti anni è sempre più assimilabile a un’azienda: i conti che devono tornare sembrano essere l’unico motivo di preoccupazione, e così non si parla che di aggiornamenti, cavilli, ricorsi, altri conti, PNRR, progetti e bandi a cui partecipare per accedere a fondi provinciali, regionali, europei, addirittura privati.

La scuola invece è prima di tutto una comunità per chi ci lavora, certo, ma soprattutto per i milioni di minorenni che la popolano, da quelli che vi entrano senza sapere ancora leggere e scrivere, fino ai più grandi che muovono i passi verso il loro futuro professionale e formativo, senza dimenticare i tantissimi stranieri che iniziano il loro percorso di alfabetizzazione e socializzazione nelle aule italiane, tra mille difficoltà e a qualunque età.

La scuola è quindi un’istituzione che maneggia situazioni fragili, sempre, di bambine e bambini, ragazze e ragazzi che per età e definizione non sono autonomi e che frequentano la scuola proprio per imparare a esserlo, in un percorso in cui sperimentano i primi giudizi su di loro, sia sul loro operato didattico che nella comunità dei loro pari età e, inevitabilmente, con le prime prove ecco i primi successi, i primi errori, le grandi delusioni, i fallimenti.

Proprio questo tema, il fallimento, così presente e trattato da altre epoche storiche e dalle loro letterature - i greci e i romani, ad esempio, discutono spesso di naufragi, sconfitte e sconfitti - è un rimosso enorme della nostra società attuale, sempre alla ricerca dell’eccezionale, dell’eccellente, del caso raro. C’è spazio anche per il dolore, ma deve essere anche in questo caso al limite estremo, affinché sia una narrazione spettacolarizzata. Questa società non ha spazio né tempo per chi arranca senza pensare a gesti estremi, per chi ha sbagliato scuola e deve essere riorientato, per chi viene bocciato e lo apprende mentre è solo sul divano, una mattina di giugno, da uno screenshot o da un vocale.

E così, quasi accogliendo l’invito di don Milani appena ricordato per il suo centenario, ecco la lettera della preside Mezzatesta che prova a rimediare a questa spirale spietata guardando ai vinti della scuola, garantendo loro una parola al miele nel momento della massima difficoltà individuale, perché un fallimento brucia sempre, ma nell’età della fragilità per eccellenza, l’adolescenza, è certamente ancora più probante. Un’azienda, o una società spietata che guarda all’utile, dinanzi al fallimento fa punto a capo e guarda avanti, invece la scuola dovrebbe dedicarsi a essere balsamo per questi fragili, mostrando con lungimiranza e realismo la possibilità di una ripartenza, possibile e peraltro necessaria, mostrandosi “inclusiva”, per dirla in scuolese moderno, o “ospitale”, accogliendo la lezione degli antichi.

Il poeta angloamericano T.S. Eliot scrive, chiudendo The Waste Land, «con questi frammenti ho puntellato le mie rovine/bene allora vi farò vedere io». Eliot invita a ricostruire ripartendo dai cocci rimasti dopo un crollo, e questa è la strada che ogni non promosso può proporsi di percorrere: ripartire dai frammenti, puntellare le incertezze, le fragilità, le debolezze - anche scolastiche, certo, ma non solo - e poi, caro studente, "bene, ci farai vedere tu". Brava preside, coraggio ragazzi.

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Marcello Bramati