Gli indumenti protettivi nei secoli: dalla peste nera al coronavirus (storia e foto)
Medici con indumenti di protezione individuale durante l'epidemia di peste polmonare in Manciuria nel 1910 (Library of Congress/Corbis/VCG via Getty Images)
Salute

Gli indumenti protettivi nei secoli: dalla peste nera al coronavirus (storia e foto)

Dalla concezione della peste come castigo divino ai medici della peste seicenteschi. Dalle grandi epidemie dei primi del novecento all'ebola fino al covid-19. L'evoluzione dei presidi di protezione individuale nella storia

"Cito, Longe, Tarde". Ossia "fuggi più lontano e più a lungo che puoi". Questa fu per secoli la regola aurea per fronteggiare le pandemie, da quando secoli prima fu scritta nei trattati di medicina di Ippocrate e Galeno. Poco sapeva e poteva la medicina di fronte alle pandemie ed ancor più raramente interveniva sulla popolazione in modo organizzato.
Quando la peste nera colpì l'Italia nel 1347 dopo essere sbarcata assieme al carico di una nave al porto di Messina, la terrificante morìa fu interpretata universalmente come un castigo di Dio e affrontata con i pochi (e naturalmente inefficaci) rimedi che la scienza medica offriva all'epoca, vale a dire unguenti, pozioni, erbe e pomate, ma anche preghiere e penitenze. Se nessun tipo di protezione individuale fu adottato durante la pandemia, si fece ricorso per la prima volta a cordoni sanitari organizzati dalle amministrazioni cittadine come quelli che furono istituiti a Venezia e a Milano, che mise in atto le prime forme di quarantena degli appestati (veri e propri sequestri giudiziari) ed i primi lazzaretti. Pur essendo l'Italia all'avanguardia nelle scienze mediche (insegnate nelle antichissime università di Bologna e Padova) la commistione ancora solida tra medicina, religione, filosofia e alchimia impedì ogni possibilità di evoluzione nelle terapie o nel contenimento del morbo, all'epoca considerato flagello divino e non certo un'epidemia veicolata dalle pulci dei ratti, di cui le stive delle navi erano piene.
Per le prime forme di protezione individuale sarà necessario attendere la seconda grande ondata pestilenziale che flagellò l'Asia e l'Europa nella prima metà del seicento. La veste del chirurgo (o cerusico) della peste, ancora oggi considerata un simbolo della pandemia raccontata dal Manzoni, fu attribuita per la prima volta nel 1617 all'iniziativa di un medico di corte francese, Charles de l'Orme, che fu anche medico personale della famiglia Medici a Firenze.
La necessità di un presidio protettivo per i medici delle corporazioni si era reso necessario in quanto l'evoluzione della scienza medica (pur non ancora disgiunta da forti influenze religiose ed alchemiche) aveva indicato nella corruzione dell'aria e negli indumenti degli appestati il principale vettore della pestilenza. L'uniforme del cerusico era costituita da una lunga tonaca in tela cerata (trattata con grasso di origine animale) corredata di pantaloni anch'essi in pelle ingrassata infilati negli stivali. Le mani erano protette da guanti in pelle di pecora mentre il collo era coperto da una striscia di cuoio simile a quella indossata sulle armature. La testa ed il viso erano celati da una cappello a tesa larga e dalla caratteristica maschera a "becco". Nella lunga protuberanza erano inserite le spezie contro la "mala aria" come menta, canfora e altre piante fortemente aromatiche, in qualche caso integrate da incenso acceso i cui fumi avrebbero dovuto proteggere il medico dall'aria corrotta. L'abbigliamento del cerusico era completato da un lungo bastone con il quale il sanitario toccava il paziente o i suoi abiti, strumento che poteva essere usato anche per sorreggere il bubbone pestilenziale che veniva bruciato dopo l'asportazione. L'abbigliamento del medico della peste rimase sostanzialmente immutato anche durante le pestilenze che si verificarono negli anni successivi alla pandemia del seicento, come indicato dagli scritti relativi all'epidemia che colpì Marsiglia e la Francia meridionale a partire dal 1720 e non mutò sostanzialmente per tutte le successive ondate epidemiche che si susseguirono (in epoca napoleonica fu particolarmente violenta quella esplosa in Egitto).

Maschera del medico della peste utilizzato in un lazzaretto di Venezia nel '700. (Wellcome Collection)

La nascita di maschere facciali protettive simili a quelle odierne nacque nel contesto di quella che è storicamente considerata la terza grande pandemia di peste, quella che si diffuse per la prima volta a Yunnan (Cina meridionale al confine con l'India) nel 1855 e rimase endemica in Indocina per oltre mezzo secolo. L'adozione di una protezione delle vie aeree in forma di maschera fu attribuita ad un membro della delegazione sanitaria americana di stanza nelle Filippine, il medico di origini cinesi Wu Liande. Sostenitore della teoria della trasmissione per via aerea della peste polmonare, Wu progettò una maschera costituita da un doppio strato di garza in cotone che racchiudeva al proprio interno una pezza di cotone assorbente a ricoprire uno strato di cotone idrofilo. Il filtro era assicurato al viso del paziente da tre bande di fissaggio: sopra e sotto le orecchie e la terza legata alla parte superiore del cranio. Durante la grande pandemia indocinese fu sperimentata un'altra maschera che ricordava da vicino la terrificante forma delle maschere dei chirurghi seicenteschi: la paternità fu di un epidemiologo francese di stanza a Saigon, Charles Broquet. Nel 1912 realizzò un cappuccio corredato di una mascherina in cotone che ricopriva integralmente il capo dell'operatore sanitario, completa di occhiali da automobilista.
Le mascherine di Wu saranno sostanzialmente quelle utilizzate pochi anni più tardi durante la pandemia influenzale nota come la "spagnola" (1918-1920) che in due successive ondate causò più morti della Grande Guerra.


I primi modelli di protezione antigas furono sperimentati all'indomani della seconda battaglia di Ypres dell'aprile 1915. Fu il medico britannico John S. Haldane, inviato sul campo ad esaminare gli effetti del tioetere del cloroetano a sperimentare la primissima forma di maschera che fosse in grado di evitare l'inalazione del gas letale. Dal suo laboratorio uscì una maschera simile ancora ad un grande fazzoletto intriso di sali alcalini atti a neutralizzare l'iprite. La protomaschera, che poneva non pochi problemi di respirazione all'uso prolungato, fu realizzata contemporaneamente anche in Italia. Si trattava della maschera Ciamician-Pesci (dal nome dei chimici che la progettarono all'inizio del conflitto), anch'essa una maschera simile a quelle chirurgiche ma caratterizzata da una forma a becco, all'interno della quale veniva immessa una soluzione di carbonato di sodio, carbonato di potassio e iposolfito di sodio come agenti neutralizzanti. La protezione del viso era completata da occhiali con bordo in gomma o in alcuni casi da un cappuccio integrale da indossare sopra la maschera. Soltanto verso la fine della guerra saranno sviluppati modelli di maschere antigas simili per concezione a quelle attuali, munite cioè di filtri avanzati per la respirazione, per la prima volta utilizzate dalle truppe tedesche e dotate di filtro dell'aria esterno e sostituibile.


La Convenzione di Ginevra del 1925 aveva messo al bando ogni tipo di arma chimica o batteriologica. Tuttavia l'uso delle protezioni individuali ed in particolare modo le maschere antigas rimase diffuso negli anni tra le due guerre con l'organizzazione a partire dalla metà degli anni '30 della difesa antiaerea, che ne prevedeva l'utilizzo diffuso per timore di attacchi dal cielo con agenti chimici. Per quanto riguarda la guerra batteriologica, questa non fu particolarmente incisiva durante la Seconda Guerra Mondiale, anche se i progressi scientifici avevano permesso l'isolamento e la coltura di numerosi agenti patogeni. In particolare i Giapponesi ne fecero uso in Manciuria, dove un'unità speciale, la 731, condusse esperimenti su prigionieri inoculando peste, colera, febbre tifoide, botulismo. Gli aerei nipponici bombardarono zone della Cina non occupate con pulci infette da peste bubbonica (forse provocando fino a 400.000 vittime civili) e tentarono con gli stessi mezzi un ultimo attacco alla fine dell'aprile 1945 (Operazione Cherry Blossoms at Night) che avrebbe dovuto infettare la costa occidentale degli Stati Uniti ma la resa del Giappone seguita alle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki fece abortire la missione.

Lo sviluppo delle protezioni individuali vide un'accelerazione durante gli anni della minaccia nucleare scaturita dalla Guerra Fredda, che portò allo sviluppo di tute e respiratori in grado di resistere all'esposizione da radiazioni con l'utilizzo di polimeri sempre più avanzati e di filtri specifici a seconda degli agenti chimici, radioattivi oppure batteriologici. Fu durante l'era atomica che il progresso scientifico rese possibile la nascita dei moderni indumenti protettivi tipo NBC (Nucleare Batteriologico e Chimico) largamente utilizzati sia in ambito civile che militare e sanitario.
Per quanto riguarda lo sviluppo delle protezioni individuali nell'ambito delle crisi sanitarie dovute a epidemie-pandemie lo sviluppo dei materiali utilizzati dagli operatori sanitari fu testato durante le epidemie in Africa e con le diverse forme di influenza aviaria in Asia . Una importantissima prova dell'efficacia degli indumenti protettivi individuali è stata fornita in anni recenti dalle gravissime epidemie di ebola, agente patogeno della febbre emorragica, trasmettibile attraverso i fluidi biologici degli infettati. I focolai epidemici sono ancora accesi dopo la scoperta del virus nel 1976, e la risposta tecnologica nell'ambito dell'abbigliamento medico-sanitario ha visto l'impiego di tute integrali del tipo Hazmat (da hazardous material) realizzate in tessuti impermeabili ai fluidi e altamente traspiranti. Le vesti sono state corredate da visiere coprenti l'intera superficie del viso e da mascherine in particolare del tipo N95 (sigla statunitense corrispondente all'europea FFP-2). Questo tipo di dispositivo in propilene dalla forma anatomica utilizza filtri antiparticolato in tessuto non-tessuto in grado di proteggere l'apparato respiratorio dall'intrusione di particelle presenti nell'atmosfera ed è attualmente uno dei presidi più utilizzati (e richiesti) nell'attuale emergenza dovuta alla pandemia da Covid-19.

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Edoardo Frittoli