Il magheggio era proprio ben congegnato
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Il magheggio era proprio ben congegnato

Secondo Matteo Renzi la riduzione delle imposte sulle buste paga inferiori ai 25 mila euro, dal 27 maggio al 31 dicembre, costa 6,6 miliardi di euro. La maggior crescita ne finanzia circa la metà, per il resto ci pensano la spending review e il taglio ai superstipendi dei manager di Stato

Secondo Matteo Renzi la riduzione delle imposte sulle buste paga inferiori ai 25 mila euro, dal 27 maggio al 31 dicembre, costa 6,6 miliardi di euro. La maggior crescita ne finanzia circa la metà, per il resto ci pensano la spending review e il taglio ai superstipendi dei manager di Stato. Et voilà, il buco nell’erario è coperto. Ma quando a Bruxelles hanno ascoltato questo teorema, gli euroragionieri hanno alzato la paletta rossa. Per loro, nelle equazioni renziane non si tiene nulla o quasi. Primo, la crescita. L’iniezione di liquidità nelle tasche dei lavoratori a redditi più bassi induce un aumento della domanda, spiegano i tecnici di Palazzo Chigi. La propensione al consumo in queste fasce è pari al 90 per cento del reddito disponibile e i consumi rappresentano il 60 per cento del prodotto lordo, quindi il Pil dovrebbe salire di circa mezzo punto. Ciò porta a ridurre il deficit di almeno 0,2 punti, il che equivale a 3 miliardi e 200 milioni, ecco perché gli sgravi fiscali sono coperti per metà.

La Ue contesta il punto di partenza. Quest’anno il Pil aumenterà di appena lo 0,6 per cento e il Fondo monetario internazionale ha confermato le previsioni di Eurostat. Persino più pessimista è il centro studi della Confindustria. Dall’esterno ci piomba in testa la crisi ucraina (le sanzioni rischiano di penalizzare l’economia italiana più di altre). All’interno, il credito continua a ridursi e la domanda, già "molto fiacca", peggiorerà nel secondo semestre che "mette a rischio le previsioni di un aumento del Pil superiore allo 0,5 per cento". Quota uno verrà raggiunta solo nel 2015, proprio come dice il Fmi. La conseguenza sui conti pubblici è pessima. Il disavanzo pubblico non sarà del 2,6 per cento, ma se va bene sfiora il 2,8. Non solo: il ciclo economico debole potrebbe alzare di due punti il disavanzo portandolo automaticamente a quota tre, mentre non sapremo fino all’anno prossimo se davvero il beneficio fiscale si sarà trasformato in consumi e produzione. "Non potete vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso" hanno detto a Bruxelles. Anche l’altra metà della manovra, del resto, è aleatoria. La spending review è soltanto "un documento di lavoro" che il capo del governo considera poco più di una bozza, infatti ha già espresso pareri contrastanti (quando è troppo, quando troppo poco) e non l’ha fatto proprio. Come si può darlo in pegno alla Commissione europea in cambio del via libera al taglio delle tasse? Il prestidigitatore, dunque, non ha ipnotizzato nessuno. Chi c’era alla cena berlinese del 17 marzo con Angela Merkel lo ha capito. Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria, racconta che "non siamo stati accolti a baci e abbracci". Altri testimoni sostengono che Renzi non si aspettava una tale doccia fredda. "Sperava di essere convincente" dice un esperto di eurocrazia "con un ragionamento politico del tipo: sostenete me se non volete la vittoria di Beppe Grillo; una saldatura con l’onda lepenista francese rischierà di
far saltare l’euro. Ma non ha funzionato".

La cancelliera ha mandato avanti il cerbero Wolfgang Schäuble e soprattutto la coppia José Manuel Barroso-Herman Van Rompuy. E i loro sorrisini sono stati più eloquenti di tanti discorsi. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha mangiato la foglia: sabato 22 marzo a Cernobbio, davanti alla Confcommercio, ha detto chiaro e tondo che "il finanziamento deve essere certo e sostenibile". In altri termini, i soldi non ci sono, la Ue non accetta cambiali in bianco e spendere in deficit rischia di far scattare la procedura d’infrazione prima delle elezioni europee. Si capisce, così, perché Renzi ha avuto tanta fretta di tornare a casa dal vertice dell’Aja, lunedì 24 marzo. Il documento di economia e finanza, promesso per la fine del mese, adesso è previsto nella prima settimana di aprile (entro il 15 va inviato a Bruxelles). Il taglio delle aliquote Irpef ogni giorno cambia forma come Proteo. Prima rischia di trasformarsi in un bonus per evitare un certo trascinamento anche nelle fasce subito superiori a 25 mila euro e, quindi, un aggravio dei costi; ma il vero sospetto è che possa diventare una misura una tantum. Poi spunta l’ipotesi di agire attraverso uno sconto sui contributi pensionistici (senza conseguenze sulle prestazioni) che consente di toccare anche gli "incapienti" (cioè chi guadagna meno di 8 mila euro) i quali, essendo esenti dall’Irpef, non ricevono nessun vantaggio dalle detrazioni. Escluso per ora di estendere anche a loro lo sgravio fiscale, perché i costi salirebbero di altri 2,6 miliardi.
Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, è irritato da tanta improvvisazione: "Renzi ha detto 80 euro al mese in modo permanente. E lo aspetto il 28 maggio". Ma il tarlo rode anche lui. "Quando si parla e non si agisce, tutti i sospetti diventano legittimi" aggiunge. Prendiamo la spending review. "Il piano deve avere un disegno chiaro, se tutto è opaco come oggi, finisce con i tagli lineari". Perché Cottarelli trasloca a Palazzo Chigi, per sottrarlo alle "grinfie" della Ragioneria o per ridimensionarlo?

Renzi è in panne anche sul fiscal compact. Vorrebbe un occhio di riguardo, ma Barroso gli ha chiesto di giurare fedeltà al patto che a partire dal 2015 costringe a prelevare una cifra attorno ai 40 miliardi l’anno (le stime dipendono dal tasso di crescita e dal raggiungimento effettivo del pareggio di bilancio, come ha sottolineato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco). Non solo. Un gruppo di esperti nominato dalla Commissione sta per consegnare un rapporto secondo il quale Bruxelles può autorizzare un prelievo forzoso di un ventesimo della differenza tra debito effettivo e 60 per cento del Pil. Sarebbero circa mille euro annui per ogni contribuente italiano, almeno finché il debito non sarà sceso a quota 120; poi, se il Pil nominale cresce del 3 per cento e il bilancio pubblico è in pareggio, potrebbe cominciare la discesa automatica.

Il corsetto fiscale può essere attenuato, ma l’indebitamento deve essersi già ridotto nel trienno precedente o deve diminuire di un ventesimo nell’anno in scorso e nei due successivi. L’Italia non rispetta nessuna delle due condizioni di flessibilità, perché il debito, secondo la Ue, sale a quota 133,7 quest’anno e resta comunque al 132,4 l’anno prossimo invece del 129,4 previsto dal governo. Renzi, dunque, non ha margini di manovra e il cortocircuito con Bruxelles mette a rischio le sue promesse.

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