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(Ansa)
Politica

I soldi investiti nella scuola sono un rebus per il prossimo governo

L’ultima indagine di Fondazione Agnelli analizza gli investimenti nazionali per il comparto scuola, sviscerando dati ufficiali e proponendo confronti con il resto d’Europa. L’esito della ricerca è un grande classico italiano: i soldi (ma non per i docenti) ci sarebbero anche, ma evidentemente non bastano, o sono spesi male

Le ricerche di Fondazione Agnelli arrivano sempre nel momento giusto. O in quello sbagliato, a seconda di come la si voglia vedere. E così se la tanto criticata quanto studiata classifica per le scuole “Eduscopio” giunge sempre in pieno periodo di scelta delle superiori per studenti e famiglie, questa volta i risultati dell’indagine di Barbara Romano per Fondazione Agnelli vedono la luce a poche ore dalle elezioni politiche e hanno tutta l’intenzione di essere materiale che il prossimo ministro dell’Istruzione dovrà maneggiare con cura.

L’ente di ricerca analizza e incrocia indicatori diversi tra loro: i dati della Ragioneria dello stato, quelli del Ministero, quelli di Eurostat e i dati OCSE. L’obiettivo è capire se gli investimenti italiani nel comparto scuola siano in linea con quelli del resto d’Europa. I risultati della ricerca, presentata con il titolo “Le risorse per la scuola: dati comuni e dati reali”, sono raccontati attraverso quattro domande accattivanti, grafici di semplice lettura e testi che interpretano in poche righe i dati proposti. Come sempre, Fondazione Agnelli sa lavorare parecchio sulla forma in cui presenta i suoi dati, volendo strizzare l’occhio al pubblico generalista.

La prima questione trattata riguarda la spesa per la scuola. L’indagine presenta due grafici e un breve commento: dal primo si ricava che la spesa per il comparto scuola sia rimasto per anni stabile, per poi aumentare dal 2020, mentre dal secondo grafico risulta che la scuola sia l’unico settore pubblico in cui si verifichi un significativo aumento del personale negli ultimi dieci anni. Questi dati portano ad alcune considerazioni. La prima è che ora non deve scatenarsi una guerra tra poveri: se a scuola ci sono state assunzioni e nella sanità no, rivelando addirittura un turnover negativo che ha fatto sostituire tre medici pensionati con solo due nuovi dottori, questo deve essere uno scandalo per l’Italia e per la sanità, non certo un elemento che faccia riversare rabbia nei confronti della scuola e di chi ne denuncia l’inefficienza. In secondo luogo, va detto che queste assunzioni di cui si parla sono per lo più a tempo determinato (i precari della scuola) e l’incremento così notevole si deve quasi interamente a nuove figure professionali, come gli insegnanti di sostegno, fino a qualche anno fa neppure previste nell’ambito dell’istruzione.

Il secondo quesito proposto mette in relazione la spesa pubblica per la scuola in Italia rispetto ad alcuni Paesi Europei di riferimento. La ricerca termina affermando che gli investimenti italiani sono in linea con la media europea e in special modo con Germania e Spagna. Un’analisi attenta dei dati presentati mostra però come in primis l’Italia sia comunque fanalino di coda, spendendo il 4.3% del PIL nella scuola rispetto al 4,6% spagnolo e al 4,7% tedesco, così come è sotto la media europea, che si assesta al 4,9%. Inoltre, confrontando i dati del 2008, si nota come la Spagna abbia incrementato i suoi investimenti dello 0,4% e la Germania dello 0,8% mentre l’Italia non si è mossa dalle sue percentuali. In questi dodici anni sarebbe stato necessario investire in ristrutturazioni, messe in sicurezza e in costose tecnologie digitali e informatiche che ora in Italia mancano e che sono responsabili del ritardo della nostra istruzione nelle cosiddette discipline STEM. Forse è proprio in questi investimenti tecnologici il motivo principale degli incrementi di spesa degli altri Paesi europei, a differenza dell’Italia.

Spaventoso il grafico sul declino demografico della popolazione studentesca che mostra i dati di questi anni e propone una stima di sviluppo fino al 2030. E’ un tema critico per tutta l’area europea, ma la picchiata del nostro Paese è da schianto al suolo. Il dato è preoccupante dal punto di vista sociale, ma mostra anche come l’Italia non sia in grado di arginare la dispersione scolastica in alcun modo. Perché non c’entra solo la contrazione delle nascite.

Gli ultimi due quesiti riguardano i docenti. Da una parte si indaga la presunta diminuzione dei docenti nelle scuole italiane, smentendo questa impressione, anche se una analisi più approfondita certifica il calo dei docenti di ruolo in favore dei precari, così come il numero totale dei docenti risulti in crescita perché include gli insegnanti di sostegno, che aumentano quasi del 10% in dieci anni.

Infine, spazio al tema sociale che riguarda la retribuzione dei docenti italiani, nemmeno paragonabile a quella dei colleghi europei in nessun momento della carriera lavorativa, che carriera professionale non è, non essendoci possibilità di crescita economica in base ad alcun indicatore, oltre all’anzianità. Peraltro l’anzianità premia meno che in altri paesi, anche senza scomodare la Germania, vero paradiso per i docenti.

Lo stipendio degli insegnanti è stato un tema elettorale da prima pagina, ma per quanto dovrebbe essere trattato seriamente per ridare dignità a un contratto per nulla attraente, è assai difficile che accadrà concretamente, nonostante sarebbe opportuno investire nei docenti che sono il vero perno della scuola con la loro preparazione (o meno) e la loro motivazione (o meno). Questo perché ci sarebbe da ridiscutere tutto: oltre a un incremento del salario base, toccherebbe rivedere tempi e modi di stare a scuola, selezione in ingresso e formazione dei docenti, soddisfazione. Sono queste tematiche decisive per un luogo in cui si fa cultura, istruzione, educazione, ma allo stesso tempo sono questioni che aprirebbero a scontri frontali con sindacati, tra piccoli privilegi acquisiti e luoghi comuni duri a morire. Meglio navigare a vista ancora un po’, forse: è gratis.

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Marcello Bramati