Giulio Andreotti
Giulio Andreotti (Getty Images).
Politica

Il vero ruolo di Andreotti nella riunificazione tedesca

Il convegno organizzato a Urbino dall'Istituto Luigi Sturzo e dalla Konrad Adenauer Stiftung ha svelato i retroscena della politica estera italiana dopo il 1989.

Il convegno di Urbino «Giulio Andreotti e Helmut Kohl. La riunificazione della Germania, lezioni per oggi» è nato come un'iniziativa italo-tedesca per esaminare a distanza di 30 anni il ruolo di Andreotti e Kohl dopo la caduta del Muro di Berlino. Un evento straordinario che in meno di un anno aveva portato alla riunificazione della Germania.

Quale era stato l'atteggiamento dei due protagonisti? Con questa impostazione il convegno, che si è tenuto dal 28 al 29 ottobre, sarebbe inevitabilmente sfociato in una contrapposizione tra le valutazioni italiane e tedesche. I due storici Ulrich Schlie e Peter Hoeres vedono ancora oggi nelle parole di Giulio Andreotti («Amo talmente la Germania che preferisco averne due») la freddezza, per non dire l'ostilità, con cui il presidente del consiglio italiano aveva seguito il progetto della riunificazione. Una posizione polemica che non ha agevolato negli anni un'analisi obiettiva della politica estera di Andreotti.

È stato quindi utile allargare l'indagine di come si svolsero quei negoziati all'insieme dei Paesi che vi parteciparono direttamente. L'approfondimento a più voci ha consentito di riempiere i vuoti e ha fornito una visione globale degli stravolgimenti in atto in quel periodo. Proprio il contesto che aveva spinto Andreotti a individuare il percorso per un nuovo quadro di stabilità.

Il processo della riunificazione tedesca andava inserito in una cornice precisa. E questo fu possibile grazie ai rapporti interpersonali tra i leader, perché dalla loro empatia sarebbero derivati i risultati voluti. La grande intuizione di Andreotti in quel momento fu di avanzare su tre piani paralleli: l'integrazione europea con l'obiettivo della moneta unica, la Nato per stringere il rapporto con gli Stati Uniti e la Csce con l'obiettIvo finale della casa comune, comprendente anche l'Unione Sovietica.

La presidenza italiana della Cee nel '90 fu l'occasione per far fare il passo storico con l'Europa che da quel momento poteva battere moneta. L'anno dopo, il vertice Nato di Roma varò il nuovo concetto strategico per cui l'Unione sovietica non era più il nemico irriducibile: l'Alleanza sarebbe diventata un forum in cui affrontare le crisi globali, svolgere un dialogo non limitato alla sola difesa ma allargato ai temi dei diritti, dell'Ecologia e della lotta al terrorismo. Niente scioglimento della Nato, come suggeriva François Mitterrand, ma rapporti più stretti con gli Stati Uniti per un dialogo non solo militare.

Una nuova conferenza di Helsinki avrebbe dovuto completare, secondo la visione di Andreotti, la trasformazione della rinnovata Csce. Il complesso rinnovamento istituzionale presupponeva non solo una volontà politica ma richiedeva anche ingenti impegni economici e finanziari di lungo periodo, sul modello del Piano Marshall del secondo dopoguerra, per consentire la realizzazione delle riforme avviate da Mikhail Gorbaciov.

L'Italia si attivò concretamente presso le istituzioni internazionali ma, a parte Mitterrand e Kohl, non ci fu la risposta che sarebbe stata necessaria. A questo riguardo Massimo D'Alema ha osservato al Convegno: «Ci fu mancanza di generosità nei confronti di una personalità come Gorbaciov che aveva dato il via libera alla riunificazione, aprendo nuove prospettive ai rapporti intereuropei».

Gli avvenimenti che seguirono hanno mostrato come lo spirito di collaborazione che aveva permesso la riunificazione tedesca si affievolì. E dire che in quel periodo si era affrontato in maniera costruttiva la prima crisi internazionale del dopo Guerra fredda: l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq.

I leader si mostrarono tutti attenti a cercare una posizione comune. Andreotti come presidente di turno della Cee tenne i contatti con i partner e fu il continuo interlocutore di Gorbaciov, portando avanti fino all'ultimo il tentativo di mediazione sovietica. E Mosca appoggiò per la prima volta in Consiglio di Sicurezza le decisioni del mondo occidentale.

L'ultima sessione del convegno si è soffermata sul periodo successivo alla riunificazione fino ad oggi. Si sono moltiplicate le crisi e non manca qualche conflitto. Soprattutto, però, manca quello spirito di collaborazione e di fiducia che esisteva 30 anni fa.

L'allargamento della Nato a Est e le operazioni realizzate da coalizioni ad hoc fuori dal quadro delle Nazioni Unite hanno hanno messo fine alla concertazione, che pure sarebbe necessaria. Molti hanno perso la consapevolezza del dover stare e decidere insieme per un bene comune. Sono nati così focolai di tensione e di preoccupazione.

Un esempio per tutti. Anatoly Adamiscin, ultimo ambasciatore dell'Urss e primo della Federazione Russa a Roma, ha lanciato un allarme. Il diplomatico ha messo in evidenza come alla frontiera tra Russia e Ucraina ci sia un crescente pericolo, con il rischio di una nuova Sarajevo... «Il quesito è, cosa si deve fare quando le cose si aggravano?» si è chiesto Adamiscin. Per poi aggiungere: «Io credo che dobbiamo tornare alle concezioni costruttive di Andreotti. Lui sì avrebbe trovato una via di uscita».

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Umberto Vattani