processo Berlusconi
(Ansa)
Politica

Perché il giudice Franco andò a dire a Berlusconi che la sua condanna  era stata «una porcheria»

Oggi, mentre la Corte Europea pone dubbi sulla regolarità del processo al leader di Forza Italia si polemizza sulle parole del magistrato nel frattempo morto: ma la sua convinzione compare in altri documenti importanti

Torna la polemica sulla condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale. Accade perché, a quasi otto anni dalla sentenza della Cassazione che rese definitiva la condanna, finalmente la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo interroga il governo italiano, che entro il prossimo 15 settembre dovrà chiarire se il Cavaliere «abbia beneficiato di una procedura dinanzi a un tribunale indipendente» e «abbia avuto un processo equo». Accade anche perché i legali del fondatore di Forza Italia hanno presentato domanda di revisione al tribunale di Brescia. Così tutti gli avversari del Cavaliere, politici, magistrati e giornalistici, sono terrorizzati dall'ipotesi di una vera riabilitazione, e hanno cominciato a sparare una salva di razzi terra-terra.

Nel mirino, l'antiberlusconismo militante ha messo le rivelazioni del giudice Amedeo Franco, uno dei cinque magistrati che composero la sezione feriale della Cassazione che il 1° agosto 2013 condannò Berlusconi. Pochi mesi dopo quella sentenza, Franco contattò l'ex presidente del Consiglio per rivelargli che la giuria che l'aveva condannato era «un plotone di esecuzione», che la sentenza era stata una «porcheria», e che la scelta stessa della sezione della Cassazione cui era stato affidato il processo era stata «teleguidata».

Franco è morto nel 2019, e questo oggi permette agli avversari del Cavaliere di mettere in dubbio le sue parole, per quanto registrate. Il dubbio è funzionale a smontare ogni tentativo di revisione della condanna del 2013, perché nel 2016 le denunce del giudice Franco sono entrate nel ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo. E ora fanno parte anche delle tante osservazioni alla base della richiesta di revisione del processo che giace a Brescia.

Ma non c'è dubbio che Franco abbia detto il vero. Il giudice, che tra l'altro era l'unico vero specialista di diritto tributario nel collegio feriale che giudicò Berlusconi, aveva già criticato pubblicamente la sua condanna: l'aveva scritto nero su bianco il 19 dicembre 2014, e in documento chiarissimo, formale, e rimasto agli atti. Si tratta addirittura di un'altra sentenza.

Era accaduto che la Cassazione nel 2014 si fosse trovata a giudicare un imprenditore trentino su fatti identici a quelli che un anno prima avevano riguardato Berlusconi. E Franco, giudice relatore di questa seconda sentenza, aveva utilizzato le motivazioni di quell'assoluzione per cominciare a liberarsi la coscienza. In quell'atto aveva scritto, infatti, che la condanna per la frode fiscale Mediaset era «contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte e al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari».

La sentenza di assoluzione dell'imprenditore trentino, che contraddice con forza la condanna di Berlusconi, fa riferimento alla legge numero 74 del 10 marzo 2000. Che, sia detto per inciso, non era affatto una legge «ad personam» berlusconiana: era stata varata alla fine del 1999 dal governo di Massimo D'Alema e confermato in Parlamento da una maggioranza di centrosinistra. Ma la legge 74 parla chiaro: tutti i comportamenti illeciti tenuti da un soggetto prima della presentazione della dichiarazione fiscale sono «irrilevanti ai fini penali, perché per configurare il reato è indispensabile che gli elementi fittizi siano contenuti nella dichiarazione stessa». In quel caso, sono comunque da addebitare soltanto a chi l'ha firmata.

Il problema è proprio qui: nel processo Mediaset Berlusconi non aveva firmato alcuna dichiarazione fiscale, eppure è stato l'unico condannato, mentre i manager di Mediaset furono assolti. Insomma, anche se non aveva più avuto alcun ruolo in azienda dal 1994, e cioè dalla sua discesa in campo e dall'inizio della sua avventura politica, nel 2013 il Cavaliere fu ritenuto il solo responsabile di una dichiarazione dei redditi mendace, anche se da lui non sottoscritta, perché frutto di calcoli e di fatture false. Nei suoi confronti, quindi, la legge 74 del 1999 è stata applicata male dalla Cassazione.

È così che Franco prende la sua rivincita sul collegio di cui ha fatto parte e che ritiene «un plotone d'esecuzione». Un anno e mezzo dopo, trattando il caso parallelo dell'imprenditore trentino, la terza sezione penale della Cassazione – quella di cui fa parte Franco in pianta stabile, e che tra le sue specializzazioni ha proprio il diritto tributario - smentisce seccamente la sezione feriale e assolve l'imputato, scrivendo che la Corte d'appello di Trento lo ha condannato perché ha valutato male la legge, adottandone «un'intepretazione analoga a quella seguita dalla sezione feriale il 1° agosto 2013 (…) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento che ha consentito di avvalersi della documentazione fittizia al sottoscrittore della dichiarazione».

Il punto è che la sentenza sbagliata cui si fa riferimento è proprio quella della condanna di Berlusconi. I giudici della terza sezione, e soprattutto il relatore Amedeo Franco, lo scrivono con dura chiarezza: «Si tratta però di una tesi che non può essere condivisa e confermata, perché è contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte e al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari, introdotto dal legislatore con il Dlgs 10 marzo 2000 n° 74». La terza sezione ricorda inoltre che la Cassazione ha più volte ribadito quel concetto, anche con sentenze pronunciate dalle Sezioni unite (e quindi particolarmente importanti), e che perfino la Corte costituzionale nel 2002 ha confermato il concetto che la legge 74 non punisce «le violazioni prodromiche a una falsa dichiarazione» dei redditi. Cioè tutto quello che è accaduto prima della firma del documento fiscale.

La forza della smentita è davvero notevole. Perché di solito, in Cassazione, quando un collegio censura una sentenza emessa da un altro collegio si limita a dire che «non è convincente». Qui invece si leggono parole fortissime: la condanna di Berlusconi è «non condivisibile», e addirittura «contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza».

Per quella irrituale presa di posizione di Franco, la Cassazione emise quasi un comunicato di censura. Per forza il giudice Franco doveva essere profondamente amareggiato, tanto da cercare il condannato e spiegargli che lui aveva inutilmente cercato di opporsi a una condanna che lui riteneva profondamente e tecnicamente ingiusta. Che Franco sia morto, non cambia certo la verità delle sue dichiarazioni e dei suoi ragionamenti. Anche perché, come si dice, verba volant, scripta manent.

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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