Berlusconi: se questo è un giusto processo
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Berlusconi: se questo è un giusto processo

Paradossi, anomalie e incongruenze delle due condanne subite da Silvio Berlusconi nei procedimenti sui diritti Mediaset e sul rubygate.

Se questa giustizia può colpire chiunque, è difficile dormire sonni tranquilli. Darebbe quasi sollievo pensare che l’impazzimento giudiziario, quelle sentenze monche o contraddittorie che lasciano sul campo più dubbi che certezze, tocchino soltanto a lui, all’arcinemico Silvio Berlusconi. Ma così non è e gli italiani, a giudicare dalla fiducia che ripongono nella giustizia, sanno bene che il sistema ha smesso di funzionare da tempo. In un paese normale le condanne morali non si trasformano in condanne penali. E un cittadino, qualunque sia il suo nome, viene condannato soltanto qualora la sua colpevolezza sia provata oltre ogni ragionevole dubbio. Giudicate un po’ voi se è così.

Dodici giudici a favore e dodici contrari
La condanna definitiva a 4 anni di reclusione riguarda il processo Mediaset sull’ormai noto «giro dei diritti tv». Lunedì 25 novembre l’imputato ha annunciato la richiesta di revisione presso la Corte d’appello di Brescia, alla luce di 12 nuovi testi (sette dei quali completamente nuovi) e di 15 mila documenti in arrivo da Hong Kong. A pronunciare la sentenza era stata, il 1° agosto 2013, la sezione feriale della Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, che nella sentenza descrive Berlusconi come «socio occulto» dell’imprenditore cinematografico Frank Agrama (vedere il punto successivo) nel ruolo di «intermediario di comodo». Con uno schema utile a evadere il fisco italiano attraverso l’interposizione fittizia di società offshore, che avrebbero rivenduto alla Mediaset i diritti di trasmissione acquistati dalla Paramount a prezzi gonfiati.
Tutto potrebbe filare liscio, se non fosse che per gli stessi identici fatti, relativi però ad anni diversi, Berlusconi è stato assolto in via definitiva sia a Roma sia a Milano, nei due paralleli processi intitolati Mediatrade. Insomma, 12 giudici contro 12. A ritenere colpevole l’imputato sono da una parte un gup di Milano, un tribunale (3 giudici), una Corte d’appello (3 giudici) e la sezione Esposito (5 giudici). A ritenerlo innocente, dall’altra, sono un gup di Milano, un gup di Roma e due sezioni della Cassazione (10 giudici) perché in questi due procedimenti non ci sono altri gradi di giudizio intermedi.

Frank agrama, il «socio occulto»
La condanna Mediaset si fonda sul teorema del «sodalizio criminale» tra Berlusconi e Agrama. Giudizio discorde da quello espresso dal giudice dell’udienza preliminare Maria Vicidomini nel processo milanese Mediatrade, che proscioglie Berlusconi il 18 ottobre 2011 (con la conferma definitiva della Cassazione che arriva il 18 maggio 2012). Secondo il gup, «il complessivo tenore della corrispondenza intervenuta negli anni 2001-2003 tra Frank Agrama e la dirigenza Fininvest/Mediaset collide nettamente con l’impostazione accusatoria, secondi cui [...] Agrama sarebbe stato socio occulto di Berlusconi». Ma poi la Corte d’appello di Milano condanna Berlusconi con questa piroetta: «I rapporti tra i due si erano indubbiamente raffreddati [...] ma ciò certo non toglie, e anzi presuppone, la stretta complicità negli anni precedenti».

I veri poteri del Cav in azienda dopo il 1994
Per i giudici della condanna, il Cavaliere sarebbe stato «il dominus indiscusso del gruppo Mediaset, che gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento, anche in mancanza di poteri gestori formali». Invece la seconda sezione della Cassazione, che conferma il proscioglimento nel processo Mediatrade a Milano, precisa che il gup ha rinviato a giudizio Pier Silvio Berlusconi e Fedele Confalonieri «escludendo dal rinvio a giudizio Silvio Berlusconi per il quale, dopo la cessazione delle cariche societarie, non emergevano condotte concludenti ai fini di un concorso nei reati addebitati, neppure sotto il profilo della gestione di fatto». «Non emergono» stabilisce la seconda sezione «comportamenti diretti o indiretti di Berlusconi nell’ambito del cosiddetto sistema di frode».

La lettera-Confessione di Agrama
Secondo i giudici della condanna, la lettera che il 29 ottobre 2003 Agrama indirizza all’avvocato milanese Aldo Bonomo, all’epoca presidente della Fininvest, e ad Alfredo Messina, direttore della Fininvest, sarebbe la prova regina del «pactum sceleris» tra i due. Nella missiva l’imprenditore insiste per avere una lettera di intenti della Mediaset, che gli garantisca un fatturato di almeno 40 milioni di dollari. Anche su questo punto, però, il gup di Milano è in disaccordo: «Se all’epoca cui sono riferibili le lettere esaminate il rapporto tra i predetti imputati fosse stato realmente atteggiato nei termini di una società occulta o di fatto, non si comprende logicamente perché Agrama dovesse insistere ripetutamente, e in forma scritta, con la dirigenza Mediaset per ottenere che i rapporti commerciali con le sue società proseguissero come prima [...]. Sarebbe bastato all’Agrama rivolgersi al proprio socio occulto, Berlusconi, per ottenere quanto richiesto, nell’asserito interesse di entrambi».
E infatti l’«affidavit» che Berlusconi ha appena consegnato alla Procura di Milano per chiedere la revisione del processo comprende la testimonianza giurata di Dominique Appleby, già dirigente del gruppo Paramount, che rovescia il teorema del sodalizio criminale tra Agrama e Berlusconi: Berlusconi e Mediaset sono le parti lese, le vittime, del raggiro operato da Agrama e dall’allora presidente della Paramount, Bruce Gordon. Secondo la difesa, Agrama faceva vendere alla Paramount i diritti tv a prezzi ribassati a società offshore, e poi queste li rivendevano a prezzi gonfiati alla Mediaset. Com’è emerso nel processo, per «oliare» le procedure Agrama non esitava a versare tangenti milionarie ad alcuni dirigenti infedeli della Mediaset, danneggiando per di più l’azienda a causa delle sovrafatturazioni a suo carico.

Il rubygate, un «pornoprocesso»
Più che di un processo, di quelli che si celebrano nei tribunali dell’Occidente libero e democratico, quello Ruby 1, imputato Berlusconi, sembra un «pornoprocesso». Decine di udienze attorno alla presunta penetrazione per comprendere se ci sia stato o meno l’amplesso fra l’imputato e Karima el Mahroug. Alla fine le prove non si sono trovate: i due hanno sempre negato, l’unica testimone che sosteneva di avere assistito all’approccio sessuale tra i due è stata smentita dalla stessa pubblica accusa perché sbugiardata dall’esame dei tabulati telefonici: non era ad Arcore. Così la procura è rimasta con un pugno di mosche in mano: migliaia d’indizi che non fanno una prova, e un manuale del sesso fai-da-te. Le domande più insidiose suonavano così: «Ha visto dei palpeggiamenti? Ha assistito a interazioni connotate da contatti lascivi? Ha mai assistito a toccamenti particolari, come le mani in mezzo alle gambe, o soltanto sui seni e sull’interno coscia? Si è mai intrattenuta in intimità con il presidente?». Non è uno scherzo, sono queste alcune delle domande che i pm hanno rivolto a delle testimoni.

La prostituzione minorile, ma senza sesso
Ruby e Berlusconi hanno sempre negato di aver copulato. In assenza di prove e di testimoni attendibili che confermassero la tesi del pm, i tre giudici della condanna a 7 anni di carcere nel processo Ruby spiegano che il bunga-bunga consisteva in «balli con il palo da lap dance, spogliarelli, travestimenti e toccamenti reciproci». Aggiungono: «A tale preludio faceva poi seguito la notte ad Arcore con il presidente del Consiglio, in promiscuità sessuale, ma soltanto per alcune giovani scelte personalmente dal padrone di casa tra le sue ospiti femminili. Certo è che, tra queste, egli scelse el Mahroug Karima». Non ci sono prove del fatto, ma la «promiscuità sessuale» di quelle serate lascia poco spazio all’immaginazione. E Karima è inserita stabilmente «nel collaudato sistema prostitutivo di Arcore».
Inoltre, mentre Berlusconi ha sempre affermato d’ignorare la minore età della ragazza (17 anni fino al 1° novembre 2010), per le giudici di Milano la prova regina che il Cavaliere sapeva sta nella parola «affido» che pronuncia nel corso della telefonata con il funzionario della questura: «Non vi furono riferimenti all’età della ragazza, ma si parlò di affido per cui egli (Berlusconi, ndr) aveva desunto che si trattasse di una minorenne», è scritto nella sentenza.
minorenne «adultizzata Con tendenze alla FantaStiCHeria»
Karima-Ruby non è la nipote di Hosni Mubarak, c’è poco da fare. Berlusconi ha sempre asserito di aver creduto alla ricostruzione della ragazza che, com’è scritto nella sentenza di condanna, in diverse occasioni e a più persone millantava la parentela con l’ex presidente egiziano. Tanto che gli stessi giudici ricostruiscono un pranzo con Mubarak, dove erano presenti anche altri commensali e al termine del quale Berlusconi racconta al rais di aver conosciuto una sua lontana parente.
Vero? Falso? Stiamo ai fatti. La ragazza marocchina, che entra ed esce dalle comunità di accoglienza, viene descritta dalla psicologa che la segue già nel 2008 come «una minore adultizzata, con una marcata tendenza alla fantasticheria autistica e con una fluttuazione del tono dell’umore». Ruby, riferisce la psicologa, «tende a evitare le relazioni interpersonali impegnative in quanto teme i coinvolgimenti emotivi profondi e piuttosto tende a essere manipolativa nella relazione». La responsabile di un’altra comunità messinese, che la ospita fino al 2009, la descrive come una ragazzina nella fase di «onnipotenza adolescenziale, un po’ eccessiva ed egocentrica». Il ritratto della vittima perfetta.

Una concussione per costrizione
Il processo ruota attorno al presunto amplesso in un’orgia di racconti pruriginosi. Ma l’accusa più pesante, che comporta da sola una condanna a 6 anni di carcere, riguarda la concussione. Il pm ipotizza una concussione per induzione, la fattispecie più lieve. Le giudici invece condannano Berlusconi aggravando l’imputazione: concussione per costrizione. In altre parole, la telefonata che intercorre tra l’allora premier e il funzionario della questura Pietro Ostuni viene interpretata come una minaccia grave, in grado di lasciare il funzionario «concusso» senz’altra via d’uscita. Una pistola puntata alla tempia, per intenderci.
Il capo di gabinetto della questura Ostuni ha sempre negato recisamente di aver subito qualsivoglia pressione. Ha spiegato, invano, alle giudici di aver optato per l’affido dopo aver constatato l’assenza di posti in comunità. Ostuni ha sempre respinto l’accusa di aver ricevuto ordini, descrivendo piuttosto la conversazione «gentile», come una manifestazione d’interessamento che certo non lo lasciava indifferente, ma che non aveva influito così marcatamente sulla sua decisione. Anche perché l’affido è una procedura prevista dalla legge. Invece per i giudici «l’enorme sproporzione dei rapporti di potere tra l’imputato e il soggetto passivo è indicativa dell’irresistibile pressione esercitata dal primo sul secondo». Dato che Berlusconi nella telefonata non propone al funzionario alcun vantaggio né utilità, ma si limita a segnalare il caso della ragazza «nipote di Mubarak», i giudici scrivono: «Ostuni si è sottomesso alla volontà di Berlusconi senza avere di mira alcun risultato a lui favorevole, ma al solo fine di evitare un possibile detrimento».
Così si sarebbe perfezionata la concussione: quasi una pistola alla tempia del concusso, che nega di essere stato concusso, senza promesse né dazioni di sorta. Così una telefonata, che sul piano politico si può forse ritenere inopportuna o azzardata, in Italia si trasforma in un reato penale. C’è poco da dormire tranquilli.

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Annalisa Chirico

Annalisa Chirico è nata nel 1986. Scrive per Panorama e cura il blog Politicamente scorretta. Ha scritto per le pagine politiche de "Il Giornale". Ha pubblicato "Segreto di Stato – Il caso Nicolò Pollari" (Mondadori, pref. Edward Luttwak, 2013) e "Condannati Preventivi" (Rubbettino, pref. Vittorio Feltri, 2012), pamphlet denuncia contro l’abuso della carcerazione preventiva in Italia. E' dottoranda in Political Theory a alla Luiss Guido Carli di Roma, dove ha conseguito un master in European Studies. Negli ultimi anni si è dedicata, anche per mezzo della scrittura, alla battaglia per una giustizia giusta, contro gli eccessi del sistema carcerario, a favore di un femminismo libertario e moderno.

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