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(Ansa)
Politica

Di Maio inviato Ue per il Golfo è un grave errore geopolitico

Nonostante ultimamente abbia cercato di fari passare per atlantista, l'ex ministro degli Esteri ha sempre mantenuto posizioni molto vicine alla Cina. La sua nomina a rappresentante Ue per il Golfo rischierebbe quindi di indebolire le relazioni transatlantiche

L’indicazione di Luigi Di Maio come nuovo inviato dell’Ue per il Golfo, da parte di Josep Borrell, non è passata inosservata, scatenando delle (comprensibili) polemiche. Polemiche che si sono innanzitutto concentrate sui dubbi in termini di competenza che circondano l’ex titolare della Farnesina. Dubbi, sia chiaro, più che fondati, visti alcuni suoi storici strafalcioni. Tuttavia emerge anche un altro punto da analizzare. Un punto altrettanto grave. Eh sì, perché, quando è stato ministro, Di Maio si è reso protagonista di alcune scelte di politica internazionale assolutamente controverse: scelte che evidentemente a Bruxelles ignorano o fingono di ignorare. Nel concreto, parliamo di scelte che hanno avvicinato pericolosamente l’Italia alla Cina (e preoccupato notevolmente Washington).

Innanzitutto, nel marzo 2019, Di Maio, allora vicepremier e titolare del Mise nel governo Conte I, fu tra i principali promotori del memorandum d’intesa sulla Nuova via della seta. “E’ un memorandum che firmerò io come ministro dello Sviluppo economico e che servirà anche ai porti del Sud ed è una grande opportunità per le nostre imprese di portare le eccellenze agroalimentari e artigianali in Cina”, disse all’epoca Di Maio. Pochi mesi dopo, a settembre 2019, il diretto interessato sarebbe diventato titolare della Farnesina nel governo Conte II: probabilmente l’esecutivo più filocinese che la storia italiana ricordi. A novembre di quell’anno, mentre era in visita a Shanghai, Di Maio rifiutò di esprimersi sulle proteste pro democrazia che erano in corso a Hong Kong. “Noi in questo momento non vogliamo interferire nelle questioni altrui e quindi, per quanto ci riguarda, abbiamo un approccio di non ingerenza nelle questioni di altri Paesi”, disse a tal proposito. “Sono abbastanza deluso nel leggere le osservazioni indifferenti del ministro degli Esteri Luigi Di Maio sulla terribile situazione dei diritti umani a Hong Kong”, replicò l’attivista pro democrazia di Hong Kong, Joshua Wong.

Non solo. Sempre a novembre 2019, il fondatore del Movimento 5 Stelle (a cui Di Maio all’epoca saldamente apparteneva) Beppe Grillo fu ricevuto dall’ambasciata cinese a Roma. È pur vero che, ad agosto 2020, Di Maio se ne uscì dicendo che era indispensabile tutelare l’alto grado di autonomia di Hong Kong. Tuttavia si trattò di una presa di posizione estemporanea, che non modificò fondamentalmente gli orientamenti filocinesi del governo giallorosso. Tanto che, quando in settembre si recò in visita ufficiale a Roma, l’allora segretario di Stato americano, Mike Pompeo, era mosso da fortissime preoccupazioni per il progressivo avvicinamento del nostro Paese a Pechino. Era inoltre dicembre 2020, quando Di Maio partecipò in videoconferenza alla cerimonia di chiusura del comitato governativo congiunto Italia-Cina. Secondo un comunicato ufficiale della Repubblica popolare, “Di Maio ha detto di aver ringraziato la Cina per il suo aiuto e sostegno nella lotta dell'Italia contro la pandemia. Le relazioni tra Italia e Cina hanno superato l'impatto del Covid-19 e raggiunto importanti risultati”. “Nell'ambito del comitato governativo congiunto Italia-Cina”, riportava ancora la nota, “le due parti hanno raggiunto nuovi accordi di cooperazione in settori quali il commercio, gli investimenti e la cultura, che infonderanno nuova vitalità allo sviluppo delle relazioni bilaterali”.

Con l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi, Di Maio mantenne l’incarico alla Farnesina, pur subendo una riduzione dei margini di manovra (l’allora premier avocò infatti a sé molti dossier internazionali). Eppure, nonostante abbia fatto di tutto per farsi improvvisamente passare come atlantista, Di Maio ha continuato a mantenere posizioni non certo fredde nei confronti di Pechino. Il 29 ottobre 2021, ebbe un incontro con l’allora omologo cinese Wang Yi e, nell’occasione, sottolineò, sì, “preoccupazioni” per la situazione a Hong Kong e nello Xinjiang, ma – secondo un comunicato della Farnesina – i due ministri concordarono al contempo “sull’importanza di promuovere ulteriormente collaborazioni industriali nel settore della transizione energetico-ambientale”. Non solo. L’allora ministro degli Esteri italiano auspicò anche una ripresa del “dialogo” tra Bruxelles e Pechino.

Ma non è finita qui. Il 10 marzo dell’anno scorso, poche settimane dopo cioè l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Di Maio ebbe un incontro telematico con Wang Yi proprio sulla crisi ucraina. Secondo una nota ufficiale della Repubblica popolare cinese, l’allora titolare della Farnesina espresse la seguente posizione: “L'Italia presta molta attenzione all'iniziativa umanitaria in sei punti proposta dalla Cina, ed è disposta a rafforzare la comunicazione con la Cina e a compiere sforzi congiunti per promuovere colloqui di pace”. “Di Maio”, concludeva il comunicato, “si è congratulato con la Cina per la positiva conclusione dei Giochi olimpici invernali di Pechino 2022 e ha apprezzato la promozione dello spirito olimpico in Cina. Ha detto che l'Italia è pronta a lavorare con la Cina per portare avanti costantemente le relazioni Italia-Cina. L'Italia si aspetta che l'incontro dei leader Ue-Cina ottenga risultati positivi, in modo da promuovere l'ulteriore sviluppo del partenariato strategico globale Ue-Cina”.

Ora, tralasciando il fatto che le Olimpiadi di Pechino erano state contestatissime proprio a causa delle violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime cinese e tralasciando anche il nuovo auspicio di ulteriore avvicinamento di Bruxelles a Pechino, a lasciare perplessi è il fatto che Di Maio invocasse il ruolo della Cina nella risoluzione della crisi ucraina. Una posizione che, già all’epoca, si configurava assurda. Il 4 febbraio 2022, Vladimir Putin e Xi Jinping avevano infatti emesso un lungo comunicato in cui auspicavano una partnership senza limiti: un comunicato in cui il presidente cinese spalleggiava le tesi di Mosca contro la Nato e in cui viceversa il capo del Cremlino appoggiava il Dragone sul dossier taiwanese. Tra l’altro, il 2 marzo la Cina si era astenuta all’Assemblea generale dell’Onu su una risoluzione di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina. Nonostante tutto questo, Di Maio –lo abbiamo visto– invocava “sforzi congiunti di pace” con la Repubblica popolare cinese.

Ecco, alla luce di quanto visto, è saggio che Bruxelles stia di fatto premiando un ex ministro tanto soft e aperturista nei confronti di Pechino? Qualcuno potrebbe replicare che la questione c’entra poco, visto che Di Maio si avvia a ricoprire l’incarico di rappresentante per il Golfo. Obiezione tuttavia poco sensata, visto che proprio sui Paesi del Golfo sta aumentando l’influenza politica e diplomatica cinese (si pensi solo al recente accordo diplomatico tra Arabia Saudita e Iran, mediato dal Dragone). Scegliere l'ex titolare della Farnesina per quel delicato ruolo potrebbe quindi finire con l’indebolire le relazioni transatlantiche, portando Bruxelles più lontana da Washington. Insomma, nominare Di Maio rappresentante Ue per il Golfo non è solo assurdo. È soprattutto un grave errore geopolitico.

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Stefano Graziosi