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(Ansa)
Politica

La politica a scuola porta alla stupidità di piazza

La manifestazione milanese di sabato ha dato ancora una volta prova che la protesta di piazza risponde con violenza alla violenza. E di generazione in generazione, anziché costruire, non si fa che affondare

L'immagine del Ministro dell'Istruzione, Valditara a testa in giù a due passi da piazzale Loreto. Mancava solo questa, ma immancabilmente qualcuno ha pensato bene di esporre dal liceo Carducci di Milano l’immagine capovolta del ministro, rievocando la fine di Benito Mussolini, appeso in una stazione di benzina a poche centinaia di metri dal liceo teatro del fattaccio.

E così la violenza dei fatti di Firenze della scorsa settimana fuori dal liceo Michelangiolo ha indignato, ha dato spazio a risposte e reazioni ufficiali, ha fatto scrivere e discutere, ha chiamato alla piazza e la piazza ha chiuso il cerchio rispondendo con toni ugualmente violenti. Si è consumata un’altra occasione per costruire, preferendo esasperare di giorno in giorno, ingaggiando una gara a chi la sparasse più grossa, più feroce, più aggressiva.

Da un piazza non ci si può aspettare una riflessione pacata o un elemento di innovazione, perché la piazza di per sé si riunisce per lanciare un grido indignato, forte, compatto, una protesta che possa unire centinaia e magari migliaia di persone dopo un avvenimento considerato scandaloso. E’ sempre stato così, contro una guerra, contro una tassa, contro un governo, contro una politica. Dappertutto.

Perché però va sempre a finire che si esageri? Sulle proteste di piazza serve un ragionamento complesso che superi fazioni, semplificazioni e riduzionismi, per cui è necessario premettere che l’episodio di copertina non riguarda l’intera protesta, che la manifestazione ha certamente ospitato anche migliaia di persone disposte anche a prendere le distanze da immagini di violenza, che si possa criticare o meno il ministro Valditara o la preside Savino ed essere comunque inorriditi da questa escalation di toni e di modi.

Dalla piazza non si pretende l’elemento costruttivo, dunque, ma da chi scende in piazza ci si possono aspettare almeno alcuni elementi di buon senso.

Innanzitutto, evitare gli stereotipi. Protestare come si faceva cinquant’anni fa, riproponendo i soliti cliché e modalità stanche di generazioni ormai in pensione non può più funzionare. E la rincorsa all’immagine più scioccante non può funzionare, non aiuta la causa e non è difficile capirlo.

In secondo luogo, bando a ogni tipo di violenza. Chi manifesta in piazza dovrebbe ormai sapere che basta una sbavatura per segnare una protesta con un’immagine che la contraddistinguerà per sempre, eppure inevitabilmente arrivano lo slogan da censurare e l’immagine del ministro appeso di turno.

Chi scende in piazza per denunciare la violenza di un gesto, di una presa di posizione, di un modus operandi non può peraltro rispondere con la stessa moneta nascondendosi dietro un ruolo sociale differente dal bersaglio delle critiche, il ministro dell’istruzione in questo caso. La piazza ha i muscoli, così come li ha l’uomo di potere, in altri modi. Niente di nuovo, infatti lo ha scritto Alessandro Manzoni duecento anni fa nei Promessi Sposi, quando narrò le dinamiche della folla denunciando il pericolo di violenza e irrazionalità che sovrastano la volontà del singolo e portano ad azioni terribili e a istinti che, in branco, si manifestano. Renzo nei capitoli ambientati a Milano del romanzo è sconvolto dall’uomo che, nel mezzo della protesta, porta con sé l’occorrente per inchiodare alla porta il vicario di provvigione, il politico contro cui ci si sta scagliando. Sempre Renzo, un semplice “montanaro” - come lo definisce Manzoni, con la sua genuinità capisce che se la folla chiede pane e distrugge i forni, il pane non si potrà certo infornare nei pozzi.

Infine, quel che più conta, la piazza non può esaurirsi con la manifestazione dello sdegno in attesa di una nuova adunata. Chi scende in piazza, dal giorno dopo dovrebbe mettersi al lavoro, valutando alternative a ciò che ha ritenuto intollerabile tanto da dedicare mezza giornata per contestare. Come? Leggendo, convocando assemblee, dialogando, soprattutto studiando.

Le manifestazioni ambientaliste di questi anni sono state adunate oceaniche, ma la spinta propulsiva si è smorzata nel momento in cui il fierone del corteo ha preso il sopravvento sul tema culturale, forte, e su quello politico, ugualmente robusto. Le persone in marcia dovrebbero passarsi libri, a centinaia, dovrebbero darsi appuntamento in università per chiedere lezioni aperte di geografia e di scienze ambientali, dovrebbero commentare insieme i testi di studiosi come John McNeill che passa in rassegna con chiarezza, complessità e lucidità la storia dell’ambiente del XX secolo, dovrebbero chiedere a gran voce riflessioni politiche che tenessero conto delle sintesi scientifiche su queste tematiche. Eppure non c’è la percezione che tra un “Friday for Future” e l’altro tutto questo accada.

Analogamente, quando si protesta per la scuola, il giorno successivo servirebbe che tutti invocassero stati generali per ripensarla daccapo, a cento anni dalla sua riforma gentiliana che ancora oggi le dà la sua forma ingessata e pensata per il primo quarto del secolo scorso. Bisognerebbe invitare chi può provare a farsene carico di mettercisi, convocando assemblee in parchi, teatri, riunioni online. Ancora una volta, leggendo e studiando, ascoltando e proponendo, studiando ancora.

Gesù parlava con i dottori del tempio a dodici anni e teneva loro testa. Le attuali generazioni più giovani leggono e studiano per tenere testa alla generazione che li fa arrabbiare, o si limitano a passare da una protesta all’altra e da un corteo al prossimo?

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Marcello Bramati