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"Non solo sindaco ma smistatore d'anime". 24 ore a Reggio Calabria

Rammendare le buche, risanare i conti, ma soprattutto gestire l'immigrazione. Una giornata con il sindaco del Pd, Giuseppe Falcomatà

Se il numero dei senatori va dimezzato quello dei sindaci va raddoppiato. Per una città un solo sindaco non basta. Uno solo ne servirebbe per rammendare le buche. Un altro per implorare ministeri e dipartimenti. Un sindaco per sedurre l’Europa e ottenere le sue risorse. Un altro ancora per disinnescare le società partecipate che sono parcheggi di umanità e sciagure finanziarie.

«E sicuramente uno a tempo pieno ce ne vorrebbe per fronteggiare l’immigrazione e per gestire gli sbarchi come quello che arriverà domattina, 814 migranti. Noi sindaci ormai confidiamo nel maltempo che per altri è castigo mentre per noi è brezza. Il tempo cattivo scoraggia questi viaggi mentre l’orizzonte chiaro li favorisce. Le nuvole ci aiutano e il sole ci spaventa» dice Giuseppe Falcomatà che di Reggio Calabria è sindaco dal 2014, ma anche figlio di Italo Falcomatà che per i reggini è stato il vero ponte, l’altro sindaco che ha collegato la città alla modernità; strade e Stato al posto della terra dura e del coltello.

«E sono schiacciato felicemente da questo nome dato che da poche settimane sono padre del piccolo Italo». Dunque anche padre e sindaco. «I sindaci hanno imparato a moltiplicarsi. Amministratori certo ma sempre più smistatori d’anime. A soli 33 anni, da sindaco, ho la tutela di tutti i minori che sbarcano. In pratica ho più figli io di Abramo che appunto in ebraico significa “padre di molti popoli”». Falcomatà è del Pd, renziano, eppure dice che all’Anci, «il sindacato di noi sindaci», è tutta una strizzatina d’occhi, un intendersi senza segni, quando tra amministratori ragionano di quote e rifugiati, di minori non accompagnati e accoglienza che non si pratica ma sempre si improvvisa.

«Da anni noi sindaci non ce la facciamo. Eppure ce la dobbiamo fare. Sempre al collasso eppure sempre vivi». Falcomatà racconta che in tre anni la sola Reggio Calabria è stata insieme ai porti di Augusta, Pozzallo, Catania e Messina una specie di Canale di Suez, «solo qui sono approdati in cinquantamila», per il Viminale da gennaio a oggi sono 12229, ancora più di Lampedusa che si ferma “solamente” a 10196. «E detesto quando sento parlare di emergenza. Pure la parola sbarchi mi sembra inadeguata. Per noi sindaci l’immigrazione non è più lo straordinario ma l’ordinario, non è il provvisorio ma il definitivo. L’arrivo e la gestione dei migranti non è più un incidente della mia agenda ma il mezzogiorno delle mie giornate». Le sue giornate cominciano presto o finiscono tardi? «Non finiscono ne cominciano bensì continuano».

Nella stessa giornata, da sindaco, Falcomatà ha celebrato la prima unione civile di una coppia omosessuale, («qui più di altrove è davvero una pagina di storia»), ha ricevuto un ministro, («Maria Elena Boschi»), un ex, («Rosy Bindi»), il presidente della Camera, («Laura Boldrini»). Tutti insieme hanno sfilato sul lungomare, «per il corteo contro la violenza sulle donne dopo l’abuso di un anno fa alla tredicenne di Melito Porto Salvo». Nella sede del suo comune riceve dunque alle 16 che è l’intercapedine tra il pranzo completato e la riunione che si annuncia «per discutere proprio di migranti, per trovare spazio e letti ma senza chiudere palestre, per identificare e ospitare ma senza scontentare e agitare gli abitanti di Reggio».

Nonostante non sia adibito a punto d’accoglienza, ma sia solo un porto d’arrivo, Reggio, racconta un prefetto che opera nelle commissioni per richiedenti asilo, è diventata la tenda dei nuovi Oliver Twist, insomma Reggio come Londra ma senza il cattivo Fagin perché, come dice una signora saggia di vita, «tra stracci e poveracci è difficile azzuffarsi». Eppure anche la tollerantissima Reggio Calabria spiega Peppe Caridi, giovane direttore di Strettoweb, una veloce e instancabile testata on line, «protesta contro Falcomatà, lamenta gli eccessi dei migranti, le occhiatacce degli stranieri. Qualcuno assicura anche qualcosa di più degli sguardi e parla di molestie. Stando alle denunce di casi non ce n’è solo uno documentato ma tanto è il malessere. È quello che io chiamo la sofferenza dello Stretto. Si tratta dello spavento verso tutto ciò che viene dal mare». E infatti è lo stesso Falcomatà a riconoscere che le contestazioni sotto il suo comune ci sono state così come gli sfoghi e gli urlacci «che per un sindaco sono un ulteriore guaio da risolvere e quindi altro lavoro immagazzinato».

A Reggio, oggi sono presenti oltre 300 migranti di cui 180 minori non accompagnati che sono l’ultima angoscia dei sindaci poiché «per ottenere la protezione e dunque rimanere in Europa, adesso i migranti tendono tutti a dichiararsi minori. Prima di questa estate i minori fino a 18 anni, secondo il codice civile, erano sotto la nostra tutela. Oggi, grazie a un decreto, solo quelli fino ai 14 anni. Tuttavia, da come si può immaginare, pochi non sono e distinguerli è difficile». Per separarli secondo età si fa uso dei raggi X, radiografia dei polsi, misurazione della massa ossea, «e io per primo mi chiedo se ci prendano» si interroga il sindaco.

Dato che la geografia si sposa sempre con il destino, a Reggio Calabria i minori sono stati alloggiati in una ex scuola, («in realtà un ex tutto, era anche ex facoltà di giurisprudenza» ammette Falcomatà), nella periferia, ad Archi; altri ancora in un ex palestra ad uso amatoriale che qui chiamano lo “Scatolone” perché proprio come le scatole non ha solo la forma ma anche la vertigine degli spigoli e gli angoli angusti.

«È il risultato dell’inconciliabilità tra il previsto e il reale. La verità è che Reggio non è solo un corridoio per migranti, come in teoria dovrebbe essere, ma una città sempre più di soggiorno. Come spesso accade tendiamo a dilatare le parole e con loro pure i tempi». E infatti come conferma Federica, che ad Archi è mediatrice culturale, tre ore al giorno di italiano insegnato e pazienza applicata, a Reggio Calabria i minori rimangono anche due, tre settimane anziché 48 ore come prevedrebbe la legge . «Ed è per questo che siamo costretti a riconvertire le palestre a dormitorio scontentando tutti. I migranti che vogliono andarsene e i reggini che nelle palestre desidererebbero rimanerci» continua Falcomatà che proprio la settimana scorsa ha ricevuto un’altra contestazione, «questa volta delle associazioni sportive di cui riconosco le ragioni».

Quante proteste riceve a settimana? «Le ufficiali? Ci sono quelle rumorose ma poi ci sono quelle individuali, il meteo che serve a misurare le ansie della città. Tante, troppe. E le dico che sono quasi contento perché significa che, malgrado tutto, ancora credono che da sindaco possa risolverle». Di certo gestire l’immigrazione è come convocare gli stati generali di un comune. «Ad ogni riunione non c’è più solo l’assessore al Welfare, ma anche quello ai Lavori pubblici per parlare di edifici, e quello al Bilancio per restituirci lo stato delle risorse».

Come molti dei comuni italiani, Reggio Calabria è sotto osservazione per i suoi conti, è sottoposta a un piano di riequilibrio dopo essere stata commissariata per mafia e aver superato il dissesto finanziario. «Ebbene l’immigrazione è anche denaro che come comune abbiamo il compito di anticipare. Solo lo scorso anno abbiamo speso 700 mila euro. È vero che lo Stato ce li restituisce ma è pure vero che lo fa dopo mesi, in seguito a rendicontazioni, dati da inserire in piattaforme informatiche. Burocrazia quindi e incertezze» lamenta Falcomatà che giustamente si fa vanto di tre asili nido comunali costruiti, «fino a pochi anni fa non ce n’era neppure uno». Reggio Calabria ha invece solo 7 assistenti sociali che come si capisce sono pochissimi per Reggio, («ce ne occorrerebbero 23 ma non possiamo assumerli a causa del piano di rientro»), sono nulla se si pensa che devono dividersi il disagio della città e la disperazione del mondo.

Ad Archi, un centro che Falcomatà desidera chiudere per evitare le grandi concentrazioni, di sera sono solo tre gli operatori dei servizi sociali che cercano di contenere non solo gli slanci dei migranti ma anche i fastidi degli abitanti che dicono di vederli denudarsi (i bagni sono solo cinque) occupare spazi, togliere campi e cielo. Poche settimane fa, sempre in questo centro, i migranti si sono chiusi per un paio d’ore tenendo in ostaggio la vecchia custode di questa ex scuola che nonostante tutto non si è scoraggiata e continua a rimanere: tenace quanto loro che invece vogliono fuggire. L’hanno chiamata dopo quest’episodio? «Ho la fortuna di avere nove assessori che mi alleggeriscono i compiti. Mi chiama invece il prefetto con cui ho un ottimo rapporto. E però a ogni chiamata il cuore è in altalena. Mi chiede di trovare spazi che non ho e in poche ore».

Quante volte la chiama? «Ormai il prefetto chiama quanto mia moglie» dice Falcomatà che è sempre più dell’idea che fare il sindaco oggi sia un mestiere non tanto da supereroi ma da incurabili matti. I matti non a caso si sdoppiano nella personalità. «Ma chi mi ha eletto forse credeva di sceglierne solo uno» ribatte prima di mostrare i suoi capelli bianchi che dice gli siano venuti da poco tempo. Di certo a Reggio Calabria lo hanno votato con il 61 per cento senza pensare che sarebbe venuta dal mare la fatica. «Abbiamo superato l’emergenza rifiuti, abbiamo rimesso in piedi le società partecipate che erano state sciolte per mafia, e poi trasporti, verde pubblico, tributi. Sono tutti impegni da sindaco». E i migranti? «Quando ci penso mi sembra di giocare a tetris. Sistemato un mattone ne cade sempre uno nuovo. Non si è mai abbastanza veloci. Eppure questo non ci ha impedito di costruire il primo cimitero interamente riservato ai morti per mare. Si trova ad Armo su una collina. Oggi partono i bus da tutta Italia, anche da altri centri d’accoglienza, per venire a omaggiare le salme. Vita e morte. Da sindaci ci dobbiamo occupare anche di questo». L’emigrazione ha fatto correre i sindaci? «Ci hanno sempre descritti dietro scrivanie lucide e giacche in ordine. E invece è il lavoro più disordinato del mondo. Non siamo più sindaci ma cappellai matti».


 

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Carmelo Caruso