Nobel per la Pace all'Europa senza pace di Sarajevo e dell'intervento in Libia
Premio "alla carriera" per un continente moribondo e senza peso, che non ha più alcun ruolo nella risoluzione dei conflitti
Quindi l’Europa premia se stessa e si concede il Nobel per la Pace. Oslo premia l’Unione Europea per i sessant’anni di pace e diritti umani garantiti per la prima volta nella storia a se stessi (anche se la Norvegia non fa parte della UE, ma questo è secondario).
Quasi un premio per dire quanto sia strano che l’Europa, così sanguinaria e violenta in tutta la sua storia, attraversata nei secoli dalle peggiori pulsioni della umana aggressività, dell’imperialismo, dell’oppressione dei diritti umani e della persecuzione delle diversità etno-culturali e politiche, sia riuscita invece a restare in pace così a lungo dopo la Seconda guerra mondiale.
Peccato che sia falso. Peccato che per dieci anni, dal 1991 al 2001, proprio nel cuore dell’Europa si sia svolta una guerra che ha visto risorgere i nazionalismi guerrafondai, la bonifica etnica, i lager e i massacri, con migliaia di morti, centinaia di migliaia di profughi e un tessuto sociale e istituzionale totalmente squassato da un conflitto che non solo l’Unione europea non ha saputo prevenire (forse perché formalmente avveniva fuori dai suoi confini), ma che in qualche modo ha persino alimentato con la sua ignavia, illudendo le popolazioni ex jugoslave che il fatto di trovarsi in Europa fosse uno scudo sufficiente contro i cannoni, i fucili, i coltelli.
E invece, raramente c’è stata una guerra nella quale in proporzione siano morti più vecchi e bambini, e in cui le donne abbiano subito in modo più deliberato e pianificato lo stupro etnico come arma di conquista.
Nel mezzo di questi sessant’anni, anzi più vicini a noi che ai superstiti del ‘45, c’è stata quindi una guerra disastrosa che ha visto l’Europa indossare la divisa bianca della pace degli “osservatori europei”. A Zara, incalzati dalle bombe come tutti gli abitanti della città dalmata, li chiamavamo “sladoledari”, gelatai, per via del biancore, del candore, dell’inutilità. Osservatori inerti, le cui corrispondenze e i cui dossier non sono mai riusciti a smuovere le cancellerie europee tanto da scongiurare la tragedia. Ne è testimone Vukovar, dove l’Europa è affogata nel sangue dei bambini all’ospedale, martellati dalle granate.
E ancora Sarajevo, assediata senza rimedio, senza che un solo caccia si alzasse in volo al momento giusto o un contingente di pace si mettesse in marcia per spezzare l’incubo dei cecchini che miravano perfino ai parenti dei morti centrati agli incroci e al mercato, durante i funerali e nei cimiteri. Ne è testimone Srebrenica, dove 8mila musulmani sono stati trucidati sotto gli occhi di centinaia di caschi blu olandesi che non hanno mosso un dito per impedirlo.
Se in Europa c’è stata pace fuori dai Balcani (ma bisogna prima intendersi sul concetto di pace di questi tempi, esistono anche le guerre economiche e il divario-scontro crescente tra un’Europa del Nord e un’Europa del Sud in cui le colpe non sono tutte da una parte), c’è stata però guerra alle nostre porte, con il nostro coinvolgimento: in Libia, per esempio.
E anche là dove l’Europa, da attore (ma sempre più comparsa) della politica internazionale, avrebbe forse potuto dare il suo contributo di pace, non l’ha dato: per mancanza di interesse, di voglia, di capacità o semplicemente perché conta sempre meno.
L’Europa non ha più un peso reale nelle vicende di guerra e di pace in Medio Oriente, e neppure in aree dove contingenti europei sotto l’ombrello della NATO e dell’ONU si trovano impantanati in conflitti che durano da anni senza che il futuro, al momento del disimpegno, si profili stabile e pacifico.
Dare un premio a qualcuno perché è riuscito a trattenere i propri istinti belluini e a non rompere il naso a qualcun altro, premiarlo perché non ha ucciso, torturato o massacrato come ha sempre fatto (ma come abbiamo visto ha tollerato che in casa sua tutto questo succedesse ancora) pare più un atto di perfidia politica, che non il riconoscimento di un merito.
E speriamo che non sia come quei Nobel “alla carriera”, che si concedono ai premiati prima che esalino l’ultimo respiro.