Marini, la fine di Bersani e del Pd
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Marini, la fine di Bersani e del Pd

La strategia fallimentare di Bersani, le divisioni. La disgregazione dei democratici - Nomi bislacchi alle votazioni - Le foto dalla camera - Lo speciale

Finito, morto, kaput. Con Bersani il Partito democratico si è disintegrato. Conflagra nelle sue mille anime, sparge pericolose schegge esplosive in tutto il sistema politico nel momento più difficile, quando il Parlamento, già paralizzato da oltre un mese e mezzo di penose acrobazie bersaniane, deve eleggere il capo dello Stato e, subito, dopo, il governo.

È bastata la disponibilità di Berlusconi e del Pdl a concordare un nome per il Quirinale, insieme alla provocazione astuta di Grillo che di rimbalzo ha gettato nella mischia Rodotà, per squassare definitivamente il pachiderma democratico.

Primo: Bersani le ha sbagliate tutte. Poteva decidere fin dall’inizio, dal giorno dopo il voto, di presentarsi come uno statista, uscire dalla gabbia di una leadership di partito ingestibile e lavorare per un accordo finalizzato a un esecutivo d’emergenza (che gli italiani attendono con impazienza). Non l’ha fatto, per paura di non andare lui a Palazzo Chigi e per l’ostinazione a tenere unito il gruppo dirigente, il suo “tortello magico”. Per settimane ha insistito che siccome lo spray elettorale non era riuscito a smacchiare il giaguaro Berlusconi, non restasse che confinarlo nel suo recinto. Poi si è illuso di poter giocare con Grillo come con un gattino, annunciando quello che improvvidamente ha chiamato scouting tra i suoi cuccioli non ancora svezzati. E ha solo ottenuto l’elezione del presidente del Senato acciuffato dalla “società civile”, con l’appoggio di un manipolo di 5 Stelle siciliani.

Adesso Grillo gli ha reso la pariglia spaccando il Pd con l’esca Rodotà. In definitiva, il comico-politico ha fatto quel che gli elettori gli chiedevano: sfasciare il Pdmenoelle. Il Pdl invece resiste. Berlusconi non ha dovuto far altro che restare fermo nella linea della responsabilità, con i sondaggi che lo premiavano e il popolo del centrodestra che lo ha seguito.

Secondo: il Pd non ha retto l’urto di una vittoria risicata che coincideva di fatto con una sconfitta morale. Da un lato, Bersani ha avuto l’onere di fare le prime mosse, dall’altro la delusione elettorale e l’insufficienza numerica lo hanno costretto a decidere tra fare il leader e il mediatore. Ha fallito in entrambi i ruoli. Come si fa a dire per quasi due mesi che non è possibile l’accordo col Pdl (ben sapendo che invece sarebbe stata l’unica soluzione allo stallo) e poi accettare la candidatura di Franco Marini? Un mese e mezzo di mosse tutte di sinistra, col plauso di Vendola e dei grillini più spavaldamente rossi, gli stavano provocando oltre alla prevedibile rottura già in atto con Renzi (e i 51 parlamentari renziani) l’abbandono degli ex popolari, schegge di un’altra lontana conflagrazione, quella democristiana.

Con la scelta di Marini, pensava forse Bersani di ricucire con i moderati del Pd, i cattolici, per poi lanciarsi in un governo di minoranza o (hai visto mai) in un governissimo sotto mentite spoglie. Ma anche qui, ha fatto male i conti. Il Pd si è rivelato, senza un leader all’altezza, un’accozzaglia di feudi. Dalemiani, prodiani, veltroniani e renziani si sono sentiti investiti del sacro compito di combattere l’ultima battaglia per il Quirinale o per Palazzo Chigi a favore dei rispettivi capi. Poi c’erano (ci sono) i giovani turchi, i dissidenti, i popolari e (attenzione!) i vendoliani di Sel. Tutti insieme, non facevano neanche un terzo dei voti degli italiani. Ciascuno però pretendeva di imporre il proprio boss, la propria linea. Una coperta troppo corta. Un leader troppo incapace.

Terzo: e adesso? Tutto è possibile. I partiti non rappresentano più i voti (i 5 Stelle, per esempio, quanti elettori di destra rappresentano?). I montiani stessi sono spaccati: ex Udc, montezemoliani, finiani, altri… E Monti non vuole fare il capo-partito. Resta solo un leader, Silvio Berlusconi, con un partito, il Pdl, che tiene grazie alla vocazione moderata del suo elettorato. Ma non ha i numeri per governare. E potrebbe alla fine soccombere a un accordo sottobanco tra sinistra pd e grillini per il Quirinale, come per il governo. Portando l’Italia verso la situazione schizofrenica di un paese “di destra” governato dalla sinistra più becera. Un misto di soviet e decrescita felice. A meno che in extremis non si crei una maggioranza trasversale di salute nazionale.

In ogni caso, il Pd è stecchito.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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