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Le elezioni in Usa, che invidia

Negli Usa si sfidano due leader quasi perfetti, espressione di una società liberale e una democrazia matura. In Italia siamo regrediti alle caverne.

Che pena. Che rabbia. Che invidia. Da un lato lo spettacolo emozionante delle elezioni presidenziali in America, tutte giocate sui contenuti in una sfida aperta tra due leader che rasentano la perfezione, frutto dei processi selettivi di una società autenticamente liberale e una democrazia matura.

E noi invece qui, a dibatterci tra governo tecnico e Parlamento in agonia, primarie incerte di cui si devono scrivere le regole, una campagna fatta di insulti, provocazioni e battute, la prospettiva di un frazionamento politico che consegnerebbe il Paese all’anarchia, e candidati ciascuno a modo suo improbabile (se non indecente).

L’American dream è anche il nostro sogno. È l’America che ci fa invidia. Che può scegliere tra due leader, due soli, in quello che sembra quasi un beauty contest, un concorso di bellezza tra Barack Obama e Mitt Romney: belli, colti, ricchi (in una nazione che non demonizza il denaro), mediatici, eloquenti, innamorati delle mogli (ne hanno tutte le ragioni), religiosi ma non bigotti, professionisti di successo prima di entrare in politica. Duello fondato su slogan efficaci ma contenuti reali: lavoro, istruzione, sviluppo industriale, politica estera. Un presidente in carica eletto dal popolo (mica il professor Monti) che difende l’operato di quattro anni davanti al Paese, e uno sfidante (non 30) che propone un’idea diversa di governo.

Ottimi studi per entrambi. Romney, 65 anni portati da dio, nell’Università dei mormoni e poi a Harvard. Obama che si è fatto da sé, sangue misto di madre anglo-tedesca e padre kenyota, direttore della prestigiosa rivista di Legge di Harvard. Romney manager che investe o acquisisce società dal Warner Music Group al Burger King, poi governatore del Massachusetts. Obama, 51 (ne aveva 47 quando diventò l’uomo più potente del mondo), avvocato difensore dei diritti civili e senatore.

Romney, sposato a 22 anni, da 43 ama la stessa donna, Ann. Cinque figli. Non un “matrimonio da fiaba”, dice lei, perché la fiaba non prevede un cancro al seno (superato) e una sclerosi multipla (la battaglia è in corso). Ma un matrimonio “vero”. Barack sempre al braccio della sua Michelle, avvocato di grido come il marito. Una bella famiglia.

Obama avversario nelle primarie 2008 di Hillary Clinton, che sconfitta diventa il suo braccio destro. Romney che se sarà sconfitto darà tutto se stesso per l’America di Obama. Perché gli Stati Uniti d’America vengono prima. Sono la Homeland, la Patria.

I duelli in tv per individuare il commander-in-chief, il comandante in capo. I media il più possibile onesti: il New York Times appoggia Obama non per l’ideologia, ma guardando all’interesse dei lettori: infatti sponsorizza per la Casa Bianca Obama, democratico, ma per New York i sindaci repubblicani Rudolph Giuliani e Michael Bloomberg. Il bene comune viene prima delle casacche di partito. Anzi, i partiti svaniscono subito dopo il voto.

Una campagna elettorale senza spendere un dollaro dei contribuenti. Solo fondi volontari, raccolti e registrati in piena trasparenza. Barack e Mitt, ognuno diverso della diversità che è la ricchezza della società americana. Obama nero, figlio di un musulmano diventato ateo e di una protestante. Mitt mormone. Ann, sua moglie, episcopale. Mitt adepto di una setta che crede nei matrimoni tra vivi e morti. Barack radicato nella memoria del villaggio paterno in Africa. Ma nulla di tutto questo, il colore della pelle o le stravaganze della fede, è argomento elettorale.

Da noi Balotelli fa notizia perché è nero, non perché è bravo. Ma diventa la copertina di Time. Marchionne in America è un eroe del lavoro, in Italia un demonio capitalista. Le primarie oppongono il giovane Renzi-Davide in camper ai vecchi (e probabilmente vincenti) Golia del Partito democratico, da Bersani alla Bindi alleati di Vendola, che fa notizia anche perché è gay dichiarato, mentre il comico Beppe Grillo, potenziale leader del prossimo primo partito italiano, naviga in rete e nuota nello Stretto ma nessuno sa quale Italia abbia in mente. A destra è un caravanserraglio. Alfano invita i competitori a scrivere le regole delle sue primarie, ma non è neppur sicuro che si terranno, le primarie del PDL.

Lo sponsor di Obama si chiama Bruce Springsteen. Quello di Romney Clint Eastwood. In Italia gli sponsor si chiamano, bene che vada, Fazio o Jovanotti.

L’America avrà i suoi difetti, anche orrori: le stragi nelle scuole, la pena di morte. Ma alla fine non vince il meno peggio. Vince il migliore.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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