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Libia, i negoziati ONU e il ruolo guida smarrito dall’Italia

Gli scambi di accuse tra Roma e Tobruk sono l'emblema di una crisi che ONU, Europa e Italia non riescono a risolvere

Per Lookout news

Lo scambio di accuse e smentite che domenica 1 novembre ha agitato i rapporti diplomatici tra Italia e Libia è solo l’ultimo capitolo di una crisi in cui l’Europa si ritrova sempre più avvinghiata. Il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, ha provato a stemperare gli animi ribadendo il 2 novembre l’impegno del nostro Paese nel sostenere il processo di ricostruzione della democrazia e delle istituzioni in Libia, a patto che però prima i governi rivali di Tobruk e Tripoli accettino l’accordo di pace promosso dalle Nazioni Unite.

Non è la prima volta che dalla Libia viene puntato il dito contro il nostro governo. Era già accaduto lo scorso 25 settembre, quando il governo islamista di Tripoli aveva denunciato un blitz condotto (senza successo) dalle forze speciali italiane per eliminare il boss degli scafisti Salah Maskhout. Questa volta le accuse sono arrivate invece da Tobruk – dunque dal governo riconosciuto dalla comunità internazionale -, secondo cui alle prime ore di sabato 31 ottobre tre navi da guerra italiane avrebbero violato le acque territoriali libiche spingendosi fino a 55 chilometri a est di Daryana, nei pressi di Bengasi. Agli avvertimenti del comandante della forza area di Tobruk Saqr Geroushi (“utilizzeremo ogni mezzo per proteggere la nostra sovranità”), sono seguite le smentite del ministero della Difesa italiana, che ha chiarito che in acque territoriali libiche non sono entrate né unità militari di Mare Sicuro (la missione per il controllo e l’assistenza ai migranti condotta dall’Italia), né navi di Eunavformed (la missione europea di sorveglianza al largo delle coste libiche a cui partecipa anche il nostro Paese).

Secondo il giornale libico Libya Herald, la verità potrebbe stare in mezzo. Le navi italiane intercettate da Tobruk potrebbero avere effettivamente sconfinato in acque territoriali libiche ma nell’ambito dell’operazione Trident Juncture 2015, l’esercitazione militare della NATO nel Mediterraneo, iniziata il 3 ottobre e il cui epilogo è previsto per il 6 novembre.

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Il ruolo interlocutorio dell’Italia

A imbrogliare la situazione si è messa poi la notizia di nuove devastazioni nel cimitero cattolico italiano di Tripoli Hammangi, dove sono custoditi i corpi di circa 8.000 italiani. È una notizia il cui legame con le accuse tra Tobruk e Roma deve essere verificato, ma che ha contribuito comunque a innervosire gli animi. Seppur separati, i due fatti nell’insieme dimostrano infatti quanto l’Italia sia ancora distante da quel ruolo guida che molti avevano sperato potesse assumere per trainare l’Europa verso la risoluzione del conflitto libico.

La stessa indicazione del generale di Corpo d’Armata Paolo Serra, da parte del ministro della Difesa Roberta Pinotti, per il ruolo di consigliere militare dell’ONU in Libia in vista di una possibile missione di peace-enforcing internazionale, resta appesa alle sorti dell’accordo di pace. Ma su questo fronte, se possibile, le incertezze sono ancora di più. In attesa del voto del parlamento di Tobruk, ad attirare su di sé l’attenzione mediatica è infatti Bernardino Leon, il quale – nonostante abbia terminato il proprio mandato al timone della missione UNSMIL lo scorso 20 ottobre – continua a essere sostenuto nella sua azione di mediazione dal segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon

 

La mancanza di strategia delle Nazioni Unite
Alla luce del rapimento del ministro della Pianificazione del governo di Tripoli, avvenuto il 2 novembre per mano di una milizia armata, gli interrogativi sull’opportunità da parte della comunità internazionale di continuare a puntare su questa strategia sono d’obbligo. Perché dare carta bianca a Leon, una figura considerata da quasi tutti gli attori protagonisti di queste trattative una parte del problema, piuttosto che la sua soluzione? Perché l’ONU permette a Leon di prolungare la sua permanenza alla guida della missione fino a quando non verrà accettata la sua proposta anche se i risultati annunciati a più riprese non sono arrivati? Che fine ha fatto il tedesco Martin Kobler, scelto per sostituire Leon? E, soprattutto, come possono le Nazioni Unite credere nel successo di un intervento militare in Libia se la presenza influente del capo delle forze armate di Tobruk, il generale Khalifa Haftar, non è contemplata nel governo di unità nazionale proposto da Leon?

 Se l’ONU non fornisce risposte immediate a queste domande, difficilmente potrà aspettarsi dei passi in avanti o delle concessioni da Tripoli e Tobruk, ma anche da altri centri e aree del Paese (Misurata, Bengasi, le aree tribali del sud) colpevolmente declassati a un ruolo marginale in questi mesi di trattative. Con lo Stato Islamico ormai in pianta stabile nel Paese, l’unica soluzione praticabile che potrebbe permettere alle Nazioni Unite di tirarsi fuori da questo pantano è un cambio di rotta rispetto alla continuità rappresentata da Leon e sostenuta da Ban Ki Moon. Altrimenti l’Europa è destinata ad assistere al definitivo collasso della Libia. E l’Italia a finire risucchiata in inutili scambi di accuse e smentite.

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Rocco Bellantone