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La lettera di una madre strappata ai figli: «È stata la ferita peggiore della mia vita»

F.C. è una donna emiliana di 49 anni e da 10 vive separata dai suoi bambini. Il suo caso non ha nulla a che vedere con Bibbiano, ma la sua sofferenza merita di essere letta. Perché, malgrado l’assoluzione di Claudio Foti, il fenomeno degli allontanamenti illeciti esiste. E fa danni terribili

Pochi giorni dopo la sentenza con cui il 10 aprile la Corte di cassazione ha reso definitiva l’assoluzione dello psicologo Claudio Foti, Panorama ha ricevuto la lettera di una madre. La donna (che chiameremo F.C.) vive in un piccolo centro sull’appennino emiliano, ha un doloroso vissuto di violenze subite, e da qualche anno le è stata imposta la separazione dai figli.

La vicenda che F.C. racconta è del tutto estranea a quelle dei presunti allontanamenti illeciti di Bibbiano, il caso per il quale Foti è stato assolto, ma vede altri 17 imputati davanti al Tribunale di Reggio Emilia. A Panorama, però, la storia di F.C. è parsa comunque molto interessante, e meritevole dell’attenzione dei lettori. Perché il fenomeno degli allontanamenti illeciti esiste - a prescindere da Foti e da quel che la giustizia deciderà sui fatti di Bibbiano – ed è un fenomeno che produce danni terribili: sui bimbi e sui loro genitori.

Ecco la lettera della donna, dedicata allo psichiatra che la sta aiutando a uscire dalle terribili sofferenze che ha patito.

Mi chiamo F.C. e ho 49 anni.

Ho sempre sentito parlare male della psichiatria dei farmaci, che se ci cadi dentro li è la fine, ma non è così. Il mio grazie, un grazie di cuore, va al primario del Centro di salute mentale di Castelnuovo nei Monti, in provincia di Reggio Emilia: in tanti anni di dolore è l'unico aiuto sincero vero che io abbia mai ricevuto, senza essere criticata, giudicata. Un giorno ho preso coraggio, gli ho messo in mano il mio «disagio», e lui l’ha raccolto.

La paura di rivivere la mi sofferenza mi ha costretta nel tempo a indossare centinaia di diverse maschere, che non hanno fatto altro che ostacolare tutti i momenti della mia vita. Per anni, prima di rivolgermi al Centro di salute mentale, avevo cercato di capire da sola perché agivo così, sicuramente in modo sbagliato. Mi sono sempre detta – senza mai mettere in pratica le mie convinzioni - che la prima cosa da fare per «guarire da una ferita» è riconoscerla e accettarla.

Le mie ferite sono state tante. Tante.

Ho dovuto convivere con la consapevolezza di essere stata una figlia non voluta, abbandonata in orfanotrofio: una bambina violentata nel corpo e nell'anima; poi una donna e una madre ripetutamente stuprata, picchiata e legata; infine una madre privata dei suoi figli perché si è ribellata alle violenze e ha denunciato.

Se guarire da mille ferite significa «accettarle», allora io forse non guarirò mai.

«Disturbo dell'adattamento» mi si dice, un termine carino per non dire «depressione»... Ma io non comprendo: a che cosa dovrei adattarmi?

La ferita peggiore è stata lo strappo tra me e i miei figli. Dopo il lutto della separazione da loro, un taglio ingiusto contro il quale ho lottato per tanti anni, scontrandomi con magistrati minorili e assistenti sociali, non sono più riuscita a risalire. Non ho trovato una sola motivazione per andare avanti.

Ho cercato di reagire, però, e in qualche modo ce l'ho fatta, sono restata viva e non mi sono ammazzata; cuore, lucidità e ragione mi hanno tenuta compagnia. La speranza che le cose sarebbero andate diversamente non mi ha mai abbandonata, e così ho reagito. Però non è andata come speravo. I miei figli oggi sono lontani. Da dieci anni è così. Me li hanno portati via per sempre. E io vivevo per loro.

Oggi sono un’emarginata, perché non ho un lavoro nemmeno precario, sono rifiutata dallo stesso «sistema» che proprio non mi vuole, mi sento una nullità, ho fallito come donna e come madre, non sono riuscita a realizzarmi in niente, mi vergogno di come sono diventata, ho tante paure e mille fragilità, autostima zero.

Come si fa a recuperare l'autostima?

Questo percorso personale che ho intrapreso (con il primario psichiatra del Centro di salute mentale di Castelnuovo, ndr) mi fa stare meglio, anche se parlare del mio vissuto e del mio presente ogni volta mi provoca rabbia dolore e vergogna, quella tanta. Vorrei imparare a parlare e a relazionarmi anche con gli altri senza provare vergogna e timore, o almeno riuscire a gestire meglio le mie emozioni. Questo è uno dei tanti obbiettivi che mi sono prefissata. Ed è uno dei motivi di questa lettera, che spero aiuti anche altre e altri nelle mie condizioni, e so che sono tante e tanti.

Spesso mi capita una cosa terribile con gli altri, uomo o donna che siano: mi blocco e non riesco a capire che cosa mi spinga a farlo, che cosa mi faccia provare paura e malessere, anche senza una motivazione. Non avrei mai, mai creduto che parlare con lo psichiatra mi facesse stare tanto meglio. Il percorso sarà lungo e ancora tanto doloroso, ma sento che con il suo aiuto posso ancora farcela... e farcela ancora. Per questo voglio dirgli: grazie.

Ho scritto questa lettera anche perché volevo dire una cosa importante ai giovani agli uomini alle donne agli anziani: non vergognati del vostro «disagio». E lasciatevi aiutare, prima che sia troppo tardi.

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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