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Ministro, non riapra i piccoli tribunali

Il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, vuole cancellare la riforma che dal 2012 ha abolito 250 piccole strutture giudiziarie. Ma rischia di fare solo demagogia. Ecco perché

Il nuovo ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede, sta per lanciare la contro-riforma delle circoscrizioni giudiziarie.

Del resto, nel programma di governo (il mitico “contratto” siglato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini), si legge che “occorre una rivisitazione della riforma del 2012, che ha accentrato sedi e funzioni giudiziarie, con l’obiettivo di riportare tribunali, procure e uffici del giudice di pace vicino ai cittadini e alle imprese”.

Questa idea di rimettere in piedi i piccoli tribunali trova la sua origine in evidenti input campanilistici, in interessi locali difficili da frenare.

Perché la razionalizzazione della cosiddetta “geografia giudiziaria”, faticosamente realizzata dal ministro Andrea Orlando, il predecessore di Bonafede, è una delle poche cose davvero buone degli ultimi governi. La riforma è riuscita a sopprimere una trentina di piccoli e minuscoli tribunali (Alba, Rossano Calabro, Tortona, Voghera…) e oltre 220 sezioni distaccate il cui lavoro era poco significativo e soprattutto costosissimo.

Trasferire magistrati e personale amministrativo nelle sedi più importanti è stato difficile, ma finalmente l’operazione è andata a regime e ha prodotto risparmi per 200-300 milioni, dal 2012 a oggi. Anche per questo, oggi, tornare indietro è assurdo. Eppure, al grido demagogico “avviciniamo la giustizia alla gente”, grillini e leghisti vogliono reintrodurre i "Tribunali di prossimità", cioè proprio i piccoli tribunali che con tanta fatica sono stati chiusi.

Il ministro deve sapere che il ripristino dei piccoli tribunali non fa bene alla giustizia, né agli utenti: i cittadini. A essere contenti saranno soprattutto i magistrati: perché riaprendo piccoli tribunali e sezioni distaccate si moltiplicheranno i posti di presidente di tribunale, e quelli di procuratore e di procuratore aggiunto (i vice del capo, che sono più di uno per ogni Procura).

Questi magistrati, per di più, torneranno tutti a lavorare in uffici molto tranquilli, dove ritroveranno il personale amministrativo che nel frattempo (a volte) è stato trasferito - con fatiche inenarrabili – nell’operazione di razionalizzazione varata sei anni fa. Anche in quel settore, com’è ovvio, torneranno a moltiplicarsi i posti di dirigente.

Il ministro, forse, non è ben consigliato. Eppure, sembra a dir poco intuibile che se un determinato numero di processi viene attribuito a tanti piccoli tribunali, invece che a poche strutture giudiziarie, il costo complessivo della produzione può solo aumentare. Se poi ci si immerge nei meandri della procedura penale italiana, i calcoli dell’aggravio dei costi diventano davvero significativi. Prendiamo il tema "incompatibilità". Da noi, la giustizia penale è amministrata dai pubblici ministeri (Pm), dai (giudici per le indagini preliminari (Gip), dai giudici dell’udienza preliminare (Gup), e infine dai giudici di Tribunale.

I Pm rappresentano l’accusa e durante le indagini preliminari devono confrontarsi con i Gip: per esempio, sono i Gip che convalidano gli arresti eseguiti dalla polizia giudiziaria su richiesta dei Pm, esattamente come le perquisizioni, o le intercettazioni.

Il Codice di procedura penale, però, stabilisce che il Gip non possa fare anche il Gup, cioè il giudice che decide se rinviare a giudizio l'indagato oppure no. Ora, mettiamo che il ministro grillino della Giustizia decida di riaprire un piccolo tribunale dove (mettiamo) torneranno all’opera cinque Pm. Ebbene, in quello stesso tribunale serviranno almeno altrettanti Gip e altrettanti Gup. A dire il vero, dato che si dovranno prevedere le ferie dei magistrati e le loro malattie, serviranno non dieci, ma almeno 15 giudici in più (tra Gip e Gup). Perché se il Gip non risponde a una data richiesta del Pm, o non si presenta a una certa udienza il giudice, tutto deve essere inevitabilmente rinviato.

Ma le cose si complicano ancora di più quando poi il processo parte davvero. Perché non possono occuparsene né il Gip, né il Gup che hanno già giudicato nelle fasi precedenti: il nostro Codice stabilisce (giustamente!) che a quel punto siano incompatibili perché hanno già emesso giudizi all’inizio del processo, che ora dev’essere trattato. Il loro convincimento, insomma, si è già formato: hanno dei pregiudizi.

Per tutto questo, nel nostro piccolo tribunale servono almeno altri cinque-dieci giudici. In definitiva, e soltanto per parlare del settore penale, un tribunale che abbia meno di 25/30 magistrati è destinato inevitabilmente alla paralisi tecnica.

Ora, visto che incidentalmente il Guardasigilli si chiama Bonafede (e si spera che il suo cognome abbia un senso benaugurante), non potrà certo negare che la Giustizia italiana sia da decenni un treno perennemente in disastroso ritardo: riaprendo i piccoli tribunali vuole forse tornare a creare aggravi di spesa e inevitabili strozzature? Forse è meglio ripensarci…

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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