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Hannah McKay/Pool/Getty Images
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Elezioni nel Regno Unito: gli errori di Theresa May

Chiedere le elezioni anticipate, non guardare all'eredità lasciata da Cameron e "straparlare" sui diritti umani. Così gli elettori l'hanno punita

Il Regno Unito, ancora una volta, si dimostra una democrazia estranea al plebiscito e ai condizionamenti ambientali e storici. Votò contro Winston Churchill, nientemeno nel 1945, a Seconda Guerra Mondiale appena conclusa vittoriosamente; votando Brexit di fatto ha votato contro David Cameron, disarcionandolo, e ora vota contro Theresa May, mettendone a rischio la carica.
Si dirà adesso che Theresa May non è Margaret Thatcher. Forse sarebbe più corretto dire che non è Gordon Brown.


Dove ha sbagliato Theresa May

Il voto anticipato - La May, a differenza di Brown, non è stata in grado di fare sintesi tra il suo passato di ministro degli Interni, l’eredità lasciata dell’ex leader dei Conservatori Cameron, e appunto, la visione necessaria per ricoprire la carica di Primo Ministro.

Quello che invece riuscì a Brown. Anche in quel caso ci fu “successione” alla carica di Premier senza passaggio alle urne, anche in quel caso la popolarità di Tony Blair superava quella del suo longevo ministro delle Finanze, ma Brown seppe comunque guidare, sia sul piano interno che nei rapporti internazionali, la Gran Bretagna senza strappi e con unanime consenso.

La successiva rivincita dei Conservatori di David Cameron chiuse non il ciclo di Brown, ma la più ampia stagione del New Labour lanciato da Blair a metà anni Novanta. May invece ha scelto la carta dell’azzardo, anticipando il voto di tre anni sulla scadenza naturale, per aver più forza parlamentare nella gestione della Brexit. Scommessa persa.

L'eredità di Cameron negata - È storia ancora recente, e quindi il nome di Cameron si associa a Brexit e null’altro. Ma non sarebbe corretto dimenticare, specie da un leader conservatore, le scuse pubbliche per il Bloody Sunday e la politica sulla parità di genere e diritti civili che fanno della democrazia britannica appunto un sistema dialettico e avanzato. Tentare di forzarlo, con referendum plebiscitari e identitari, può costare caro. May aveva la lezione del suo predecessore sotto gli occhi, ma non ne ha tenuto conto.

I Diritti Umani - La campagna elettorale di May è stata un disastro. L’ultima uscita, vagamente thatcheriana, le è costata cara. Alla vigilia del voto ha infatti dichiarato che in tema di Diritti Umani sarebbe stata pronta a qualsiasi deroga utile a proteggere il popolo britannico. Il concetto abbraccia almeno tre momenti della storia inglese del Novecento. Se poi la cosa avesse anche stile (e non ne aveva) non conta: siamo in politica, e non a Savile Row, ma comunque il risultato sperato non è giunto.

La società britannica si è scontrata una prima volta in maniera drastica con l’argomento (invero assai complesso) dei diritti umani durante la guerra civile nordirlandese. Le misure contro l’IRA, condensate nelle leggi speciali volute dal governo di Margaret Thatcher, ebbero nella vicenda di Bobby Sand (oggi un film di Steve McQueen con Michael Fassbender) l’apice drammatico.

Nel 2015 la controversia politica tra carta dei Diritti Umani europea e britannica ha catalizzato il dibattito inglese, che pure rimaneva nei termini seri del confronto giuridico alieno da fobie antislamiche. Oggi, dopo i recenti attentati, chiamare alla sospensione o all’interpretazione dei diritti umani significa avventurarsi su una faglia davvero fragile, come ha capito il sindaco di Londra Sadiq Khan, nella recente polemica con Donald Trump.

Il risultato per Jeremy Corbyn

Insomma, gli errori macroscopici di Theresa May offrono un grande risultato a Jeremy Corbyn. Il suo non è un Labour con idee troppo chiare, né con un leader carismatico. Ma ugualmente gli inglesi hanno preferito un parlamento frazionato alla leadership di chi, in assenza di carisma, si è affidata troppo agli slogan. Con humor tutto britannico, enough is enough lo ha detto l’elettorato inglese a Theresa May.

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Alessandro Turci

Alessandro Turci (Sanremo 1970) è documentarista freelance e senior analyst presso Aspenia dove si occupa di politica estera

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