Perché il piano Juncker non serve all'Italia
Epa/Patrick Seeger
Economia

Perché il piano Juncker non serve all'Italia

Ecco come abbiamo perso l'unica battaglia che doveva essere vinta

“Timido ma nella direzione giusta”. E’ questo il giudizio che il governo, sia per bocca del presidente del Consiglio Matteo Renzi che per quella del responsabile dei rapporti con la Ue, Sandro Gozi, ha dato sul cosiddetto “piano Juncker per la crescita” che consiste in 21 miliardi di euro messi a disposizione, in varie forme dall’Europa che dovrebbero attivare ben 315 miliardi di investimenti, sia pubblici che privati. Il fondo sarà alimentato volontariamente dagli Stati con dei contributi che saranno scomputati dal calcolo del deficit. Per l’Italia, che lo ritiene un successo politico, il piano Juncker è perfettamente inutile. Vediamo perché.

Nel 2007 governo italiano e Europa hanno stanziato un totale di 124 miliardi di euro per investimenti. Una cifra spaventosa, composta da 63 miliardi messi a disposizione dallo Stato, che non hanno limite temporale di spesa e che vanno sotto il nome di Fondo per lo sviluppo e la coesione; da 29 miliardi di euro messi a disposizione dell’Europa utilizzabili entro il 2015 ma solo se co-finanziati dall’Italia, che a questo scopo ha stanziato altri 31 miliardi.

Partiamo dai 63 miliardi italiani, destinati per l’85% al Sud e per il 15% al nord. Circa una ventina sono stati usati per affrontare emergenze come il terremoto in Abruzzo, finanziare il fondo infrastrutture, pagare gli ammortizzatori sociali in deroga e via dicendo. Sono rimasti da spendere 19,8 miliardi da parte delle amministrazioni centrali e 24 miliardi da parte delle amministrazioni regionali. Secondo i più recenti dati, non ancora resi noti ufficialmente, la percentuale di spesa di questi soldi è pari al 25% che scende al 10% nelle regioni meridionali. Se si considera che la percentuale di spesa era, a fine 2013, del 4,23% (19% al Nord e 1% al Sud) non si può che essere soddisfatti. Resta il fatto che entro la fine dell’anno le regioni del Sud devono impiegare 19,6 miliardi per evitare che lo Stato glieli sottragga. Perché non li hanno spesi finora? Semplice: perché per usarli li devono co-finanziare. Se, ad esempio, una Regione vuole costruire un asilo che costa 1 milione di euro, può usare 500mila euro di fondi nazionali solo se lei ci mette gli altri 500mila euro. Solo che non lo può fare, perché il patto di stabilità interno impedisce alle amministrazioni locali di spendere anche i soldi che hanno in cassa.

Passiamo ai fondi europei. Dei 60 miliardi compessivi (compreso il cofinanziamento italiano) da spendere entro il 2015, 40 sono destinati al Sud e, sempre secondo i dati più recenti, al 31 ottobre 2014 la percentuale di spesa è del 62% a livello nazionale e del 56% al Sud. Il dato della spesa dei fondi europei al Sud è molto buono, ma purtroppo contiene un trucco. Durante il governo di Mario Monti il ministro per la Coesione Territoriale, Fabrizio Barca, consapevole delle difficoltà delle Regioni a usare in modo produttivo i fondi a disposizione, ha “riprogrammato” 11,9 miliardi. Tradotto: ha scorporato dai programmi che non riuscivano a diventare operativi 11,9 miliardi e li ha assegnati a scopi sociali: cura degli anziani e asili nido. Questa “riprogrammazione” ha fatto calare il totale dei fondi europei disponibili a 48,1 miliardi. La percentuale di utilizzo del 56% si riferisce ai 48,1 totali ma cala al 43% se si considera l’ammontare complessivo iniziale, 60.

E quegli 11,9 miliardi di Barca, che fine hanno fatto? L’ex ministro pensava che destinandoli alle cure di anziani e bambini fossero più facilmente spendibili, ma si sbagliava. Dopo circa 18 mesi ne sono stati spesi circa il 10%, cioè meno di 1 miliardo. Il motivo? Le Regioni sostengono che la colpa è sempre del patto di stabilità interno anche se gli esperti hanno forti dubbi: pensano, piuttosto, che il motivo sia da ricercare nella difficoltà endemica delle amministrazioni locali a spendere (e rendicontare) i soldi. Il governo Renzi, affamato come i predecessori di soldi, ha comunque deciso di andare per le spiccie e nella legge di Stabilità per il 2015 prevede di usare 3,5 miliardi del “fondo Barca” per finanziare il credito d’imposta per le nuove assunzioni che le imprese effettueranno del 2015.

Restano, comunque, da spendere circa 7 miliardi di euro che, sulla carta, sono tutti impegnati. Ma solo sulla carta. Perché, a ben vedere, anche i 3,5 miliardi che Renzi userà come credito d’imposta per i nuovi assunti erano, sulla carta, impegnati. Ciò significa che siccome difficilmente i restanti 7 riusciranno ad essere spesi, l’anno prossimo Renzi li potrà destinare ad altro. Un tesoretto, insomma, utile per tamponare altre emergenze.

La conclusione è che nel 2015 dovremo riuscire a spendere almeno due miliardi al mese per evitare l’onta di un’Europa che ci sottrae i fondi che ci ha messo a disposizione nel lontano 2007 e che ci ha chiesto di usare entro il 2015. In tutto questo cosa c’entra Juncker? C’entra eccome, perché i miliardi che dobbiamo cofinanziare rientrano nel computo del rapporto deficit/Pil e siccome nel Def il governo prevede che questo rapporto, nel 2015, sarà al 2,6% (2,7%, secondo i tecnici di Bruxelles) se l’economia salisse dello 0,6%. Difficile. Significa che nel 2015 sarà molto difficile, se non impossibile, recuperare quei 12 miliardi di competenza italiana senza un nuovo aggiustamento del bilancio pubblico: tagliare spese o aumentare le tasse.

Ben diverso sarebbe stato se il governo fosse riuscito ad ottenere che la spesa per cofinanziare i progetti europei fosse stata scomputata dal calcolo del deficit ma, purtroppo, ha fallito e ha ottenuto che ad essere scomputati siano i fondi del piano Juncker, che l’Italia non userà perché deve spendere ancora quelli dei fondi strutturali.

Questo è il motivo per il quale la battaglia contro il “rigorismo” europeo è sbagliato: perché il problema non sono i soldi che mancano, ciò che manca è la capacità di spendere i soldi che ci sono. Se l’Italia, dopo 9 anni, deve ancora spendere 24 miliardi di fondi europei, senza considerare quelli italiani, significa che non è affatto schiava dei calcoli ragionieristici della Germania, ma vittima della sua incapacità. E vuole anche dire che, proprio mentre presiede l’Unione europea, non è riuscita ad ottenere l’unico obiettivo economico che avrebbe potuto dare una spinta agli investimenti.

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