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Vertice a Vilnius, la Nato si gioca la credibilità

Le decisioni sulle relazioni con l'Ucraina avranno un impatto per i decenni a venire: bisogna interrompere l'aggressione russa, e garantire che le province a Est del paese non siano più attaccate le popolazioni filorusse

Si apre il vertice Nato di Vilnius nel quale il tema dominante sarà il futuro delle relazioni tra Ucraina e Alleanza atlantica. Riassumere una questione così complessa in poche pagine è impossibile, tuttavia tentiamo di spiegare quanto potrebbe accadere. Tutte le nazioni occidentali concordano su un fatto: l’Ucraina pacificata nella Nato e con i confini del 1991 sarebbe la fine di ogni velleità russa di essere la superpotenza he militarmente ha dimostrato di non essere più, portando probabilmente Mosca a cambiare governo ma anche a trasformarsi in una nazione satellite della Cina.

Il pericolo restano però le sue circa 6.000 testate nucleari. Dallo scoppio della guerra di questa “adesione” ucraina se ne parla in continuazione, ma la questione è all’ordine del giorno da almeno quindici anni, quando al vertice di Bucarest (2008) furono discusse senza esito le prospettive di un piano d'azione, tanto che il rifiuto di procedere è considerato oggi da taluni analisti come il prologo agli eventi accaduti in Donbass nel 2014.

A Vilnius le decisioni relative alle relazioni Ucraina-Nato avranno un impatto per i decenni a venire, poiché se da un lato è necessario trovare il modo per interrompere l'aggressione russa, dall’altro bisogna garantire che nelle province a Est del paese non siano più attaccate le popolazioni filorusse. Per l’Occidente l’attacco russo è un verdetto decisivo contro l'architettura di sicurezza europea istituita dopo la Guerra Fredda, con l’Ucraina che rappresentava una sorta di zona grigia tra un’Alleanza ormai allargata e una Russia che si sentiva sempre più circondata.

Da allora sono stati approvati vari trattati come la Carta del partenariato tra la Nato e l'Ucraina del luglio 1997 e la rinnovata Carta Usa-Ucraina del novembre 2021, ed entrambe le azioni partivano dal presupposto che la sicurezza dell'Ucraina fosse un elemento indispensabile per quella europea. Purtroppo, quelle occasioni sono state però più dichiarative che concrete. A Vilnius da parte anglo-americana si farà notare che per argomentare contro l'adesione immediata dell'Ucraina alla Nato c’era la consapevolezza del suo armamento insufficiente e obsoleto, basato su produzioni dell’era sovietica, con le quali era impossibile attuare strategie di supremazia aerea e marittima. Ma oggi è tutto diverso e non ci sarebbe bisogno di collocare immediatamente consistenti forze Nato sul territorio ucraino per garantire quanto previsto dall'Articolo 5: “Le nazioni concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in Nord America, sarà considerato un attacco contro tutte”.

In questo caso sarebbe però complicato proteggere i territori dell’Est, nei quali prima o dopo sarebbe necessario schierare soldati di una forza internazionale che si troverebbe a contatto con quella russa. Così la domanda da porsi è: potrebbe essere la Nato a reclamare ai russi la restituzione delle regioni occupate? Per Zelensky sarebbe un sogno, mentre per noi un incubo che, almeno sulla carta, potrebbe facilmente portare a scontri come li abbiamo visti quasi trent’anni fa nell’ex Jugoslavia. Quando Joe Biden dice: “l'Ucraina deve attraversare le stesse fasi di adesione degli altri paesi e soddisfare tutti i criteri”, evidentemente non è credibile, così come Putin quando minaccia “escalation non convenzionali”, parole che non trovano l’assenso né il credito di nazioni come India e Cina. Una possibile via di uscita è applicare la cosiddetta strategia del porcospino tipica di Israele, ovvero la firma di alcuni accordi politici che definiscano gli strumenti di aiuto utilizzati dai paesi della Nato per rafforzare le capacità difensive di Kiev: quali armi e munizioni, dati di intelligence da fornire, il tipo di addestramento per le truppe. Il tutto con lo scopo di trasferire all’Ucraina la maggior parte dei rischi legati allo scontro diretto con la Russia.

In tale contesto il processo di adesione sarebbe progressivo. Da parte ucraina si riconosce soltanto il fatto che cominciare il processo d’ingresso mentre sono in corso scontri ad alta intensità non sia possibile, così Zelensky potrebbe accontentarsi di un veder approvato un “calendario” che possa rappresentare una strada verso l’adesione così come un motivo per avvicinare almeno un cessate il fuoco, interpretando in modo differente l’articolo 5, sostenendo che “la difesa reciproca” non implica la necessità di combattere per l'Ucraina, poiché gli aiuti potrebbero essere limitati alle forniture previste, quindi senza provocare rischi aggiuntivi per i membri della Nato ma consentire la continuazione dei meccanismi in atto.

Questa strategia però pone alcuni quesiti: il primo è che fino a oggi l’articolo 5 ha sempre previsto la possibilità dei membri di affrontare una guerra ad alta intensità. Il secondo: la nuova interpretazione dell'articolo 5 non piacerà alle nazioni dell'Europa centrale e orientale che fino a oggi vi hanno ampiamente fatto affidamento. Con il rischio concreto che l’Alleanza possa perdere la sua credibilità e, di conseguenza, la sua capacità di usare la deterrenza esistente. Peggio ancora, la Nato dimostrerebbe reazioni differenti a seconda della nazione che venisse aggredita. Infine l’esperienza dice che, come il Memorandum di Budapest del 1994 non ha fornito a Kiev la protezione che si aspettava, gli accordi quadro non proteggono l'Ucraina dai cambiamenti interni che potrebbero verificarsi negli Stati che li hanno firmati, cambiamenti che potrebbero influire sulla disponibilità ad attuare gli impegni presi.

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Sergio Barlocchetti

Milanese, è ingegnere, pilota e giornalista. Da 30 anni nel settore aerospaziale, lo segue anche in veste di analista. Docente di materie tecniche presso la scuola di volo AeC Milano è autore di diversi libri.

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