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(Ansa)
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Soldati Nato in Ucraina, una follia per fortuna irrealizzabile

La frase di Macron ha provocato la dura reazione di Mosca ma dentro c'era poco di vero, se non la voglia di prendersi la prima fila...

Sarà lo choc per la scomparsa di Alexey Navalny. Sarà la smania di protagonismo della Francia. Sarà l’euforia per l’ingresso nella NATO anche della Svezia, dopo la Finlandia. Fatto sta che l’insolita uscita del presidente francese Emmanuel Macron - «non possiamo escludere l’invio di truppe occidentali in Ucraina» - ha gettato nel panico i Paesi dell’Est Europa (ovvero quelli più contigui all’Ucraina e alla Russia) e allarmato lo stesso Cremlino. Che ha risposto piccato all’Eliseo attraverso il portavoce Dmitry Peskov: «In questo caso, dovremmo parlare non della probabilità, ma dell’inevitabilità di un conflitto».

Subito sono arrivate secche smentite sull’ipotesi del capo dell’Eliseo dalla Germania, con il Cancelliere tedesco Olaf Scholz che ha affermato che «non ci saranno truppe sul terreno, né soldati inviati dagli Stati europei o dagli Stati della Nato sul suolo ucraino»; e così anche dalla Spagna, con un laconico «non siamo d’accordo» affidato alla portavoce del governo di Madrid, Pilar Alegría; e dallo stesso Regno Unito, che esclude la possibilità di inviare truppe in Ucraina.

Perché, dunque, Macron ha detto quel che ha detto? Anzitutto il contesto: l’occasione è stata la conferenza di Parigi sugli aiuti all’Ucraina, il «contro-G7» che riuniva i rappresentanti dei 27 Paesi membri dell’Unione Europea, tra cui 21 capi di Stato e di governo. Poi, la reale dichiarazione di Macron ai microfoni della stampa internazionale: «Questa sera non c’è stato alcun accordo per l’invio ufficiale di truppe sul terreno, ma non possiamo escludere nulla».

Quindi, tra le righe, il vero pensiero del presidente francese: «Faremo tutto il possibile per impedire alla Russia di vincere questa guerra, e lo dico con determinazione, ma anche con l’umiltà collettiva che dobbiamo avere, alla luce degli ultimi due anni», come ha affermato durante le sue dichiarazioni ai giornalisti.

Dopodiché il punto saliente: «Le persone che oggi hanno detto “mai e poi mai” sono le stesse che avevano detto mai e poi mai agli aerei, mai e poi mai ai missili a lungo raggio, mai e poi mai ai camion di aiuti. Hanno detto tutto questo due anni fa. Molti a questo tavolo avevano detto “offriremo elmetti e sacchi a pelo”, mentre ora dicono che dobbiamo fare di più per avere missili e carri armati. Dobbiamo essere umili, e renderci conto che siamo sempre stati in ritardo di sei-otto mesi», ha sottolineato il capo di Stato francese, annunciando al contempo la creazione di una nuova non meglio definita coalizione che fornirà «missili e bombe» a medio e lungo raggio all'Ucraina.

Tutto ciò, se da un lato ha mandato in tilt le segreterie di mezza Europa, manda però anche un segnale esplicito a Mosca, Kiev e Washington contemporaneamente. E il segnale appare il seguente: i leader dell’Unione Europea e i rappresentanti dei rispettivi governi sono pronti a difendere l’Ucraina fino alle estreme conseguenze. E ne stanno discutendo seriamente. Tant’è che non solo «abbiamo deciso di intensificare la parte relativa alle munizioni e di produrre risultati tangibili molto rapidamente» anche in relazione ai tentennamenti americani, come ha aggiunto Macron. Ma, come ha confessato il presidente polacco, Andrzej Duda, l’ipotesi era davvero sul tavolo: «La discussione più accesa si è svolta intorno alla questione dell’invio di soldati in Ucraina. E anche qui non c’è stato assolutamente alcun accordo». Però intanto se n’è discusso.

Come a dire che l’Europa che decide, di là dalle dichiarazioni rassicuranti e rettifiche dei suoi leader, è ormai convinta che vincere questa dannata guerra sia diventata (o sia sempre stata) una questione vitale, e che di conseguenza non è neanche così inverosimile che vi sia prima o poi un impiego diretto di truppe, pur di scongiurare la sconfitta di Kiev. Perché quest’ultimo scenario significherebbe implicitamente la sconfessione su tutta la linea dell’operato di Bruxelles, che troppo denaro ha investito e troppo sostegno ha fornito agli ucraini per potersi semplicemente ritirare adesso, ammettendo la sconfitta.

Alla luce di tali considerazioni, il senso ultimo della dichiarazione di Emmanuel Macron - «Faremo tutto il possibile per impedire alla Russia di vincere questa guerra» - assume una valenza maggiore. Tale asserzione, del resto, difficilmente poteva essere voce dal sen fuggita; e difatti somiglia piuttosto a una parte di quel programma relativo alle politiche di difesa che l’Ue si appresta a varare a partire dal 9 giugno prossimo (cioè, subito dopo le elezioni del parlamento europeo). E che oggi si rafforza anche in ragione delle posizioni ragionevoli dell’Ungheria, il «Paese ribelle» che si è ormai piegato ai voleri di Bruxelles e che difatti si è unito al coro euro-atlantico, a partire proprio dallo sblocco dell’ingresso della Svezia nell’Alleanza, che passava per il voto unanime dei Paesi membri della NATO.

Dunque, cosa aspettarsi dal futuro? Intanto, chi ha intravisto nella presa da parte russa di Avdiivka, cittadina nella regione ucraina di Donetsk, il segno di un cambio di passo dell’esercito russo, forse è un po’ troppo ottimista. Vero è che la controffensiva ucraina ha sostanzialmente fallito gli obiettivi e che le truppe di Kiev sono esauste e a corto di munizioni. Ma proprio la perdita di Avdiivka e la quasi contemporanea uccisione in carcere dell’oppositore del regime russo Alexey Navalny, stanno facendo da acceleratore per lo sblocco di ulteriori fondi destinati a Kiev su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ecco, in sostanza, cosa può aver convinto Macron a fare simili dichiarazioni: conviene destinare in fretta fondi sufficienti all’Ucraina proprio per non dover sopperire al gap tra i due eserciti con l’invio di truppe europee. Altrimenti, dovremmo convenire che quella di Macron sia stata una stecca fuori dal coro dei solitamente prudenti capi di Stato e di governo europei.

Sul versante americano, invece, nessuno si è scandalizzato per l’uscita di Macron. E se Joe Biden dovrà aspettare che la Camera riapra dopo il 28 febbraio prima di vedere tradotto in voto l’accordo tra democratici e repubblicani per stanziare fondi, intanto la sua Amministrazione è convinta di riuscire a portare a casa un negoziato che, da un lato, gli consentirà di sbloccare il pacchetto di aiuti all’Ucraina, Israele e Taiwan per un ammontare monstre di 95,3 miliardi di dollari. Dall’altro, però, gli costerà una serie di concessioni ai repubblicani sulle questioni più care al partito di Trump, come quella dei migranti.

Questo perché il regime di Vladimir Putin è diventato anche per gli americani una minaccia significativa, specialmente dopo che la Cia ha rivelato l’intenzione del Cremlino di mandare in orbita un’arma nucleare: un incubo per i sistemi di difesa e di comunicazione occidentali.

C’è poi una ragione tutta personale per Joe Biden che lo spinge a volere la Russia e il suo leader sconfitti: l’FBI ha infatti scoperto che Alexander Smirnov, l’ex agente del Bureau che ha accusato il figlio del presidente Hunter Biden di aver condotto affari illeciti in Ucraina, in realtà era stato reclutato dai servizi segreti russi, dai quali aveva ricevuto quel materiale diffamatorio con cui i repubblicani avevano attaccato il presidente in vista delle elezioni presidenziali. Il che ha riportato l’America al clima del 2016, quando lo spettro dell’ingerenza russa e la manipolazione dell’informazione e dei social nelle elezioni Usa, avevano contribuito a portare Trump alla Casa Bianca e Clinton nella polvere.

Così, ecco che le nuove iniziative congiunte di Bruxelles e di Washington tornano ad avere un senso, o meglio un disegno. Che questo costringa gli alleati a mettere i proverbiali «boots on the ground» o che questo consenta la vittoria di Kiev e una diminutio di Mosca rispetto alle grandi potenze, è tutta un’altra questione.

Ma se è vero che per Bruxelles l’unità territoriale dell’Ucraina è imprescindibile per arginare l’imperialismo russo, per Washington il senso del continuare a finanziare la guerra s’inserisce in una cornice ancora più grande, e al tempo stesso più piccola. Il finanziamento che a marzo sarà votato dal Congresso coinvolge infatti anche Israele e a Taiwan, e dunque quasi l’intera politica estera degli Stati Uniti. Ma al tempo stesso s’inserisce anche nella corsa per la rielezione di Joe Biden: in caso di una sconfitta al Congresso sulle armi da destinare a Kiev, la linea pro Ucraina del presidente in carica sarebbe sconfessata. E questo potrebbe minare la sua autorevolezza e aprire la strada a un secondo imprevedibile mandato Trump.

A quel punto, l’Europa rimarrebbe probabilmente da sola a combattere al fianco dell’Ucraina. E davvero, come profetizza oggi Macron, a quel punto non si potrà più escludere «l’invio di truppe occidentali in Ucraina».

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Luciano Tirinnanzi