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Il re di Giordania Abdullah II (Ansa)
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Il ruolo della Giordania nella difesa di Israele

Il servizio di difesa del Paese avrebbe neutralizzato i droni iraniani Shahed 137 prima ancora che questi raggiungessero il confine israeliano. Una mossa che riapre lo scenario di una volontà di costruzione di un’alleanza filo-occidentale in Medio Oriente

Sui social media da qualche tempo hanno cominciato a circolare immagini del re di Giordania Abdullah II, che indossa la divisa dell’esercito israeliano. Il che, in un Paese dove un quinto della popolazione è palestinese (2,3 milioni di persone), suona piuttosto strano. Ovviamente, si tratta di un fotomontaggio, ma il senso è chiaro: una parte di giordani e palestinesi sta protestando veementemente contro il governo di sua maestà perché a loro dire schierato con Israele e non con la causa palestinese. Da dove derivano queste polemiche?

La risposta è tutta nell’attacco iraniano di sabato notte contro Israele. Quando cioè i Pasdaran, la casta dei militari che condivide il potere in Iran con gli ayatollah, hanno dato il via a un massiccio invio di droni e missili, che tuttavia è stato completamente neutralizzato da Israele. Il cui successo militare così eclatante, forse imprevisto dagli stessi Pasdaran, si deve sì all’efficacia del sistema di difesa antiaerea Iron Dome, ma anche e soprattutto alla fattiva collaborazione di Gerusalemme con altri Paesi, che hanno aiutato concretamente gli israeliani a neutralizzare la minaccia.

Se infatti la contraerea ha funzionato a dovere contro la pioggia di droni e missili provenienti da Teheran (complessivamente oltre 300), senza aiuti esterni e coordinati non avrebbe prodotto gli stessi mirabili risultati. Questo perché il lancio contemporaneo di così numerosi vettori nello stesso momento può saturare qualsiasi sistema di difesa, anche il super tecnologico Iron Dome, e dunque qualche missile verosimilmente avrebbe bucato comunque la «cupola di ferro» e sarebbe penetrato in territorio israeliano.

Invece, non è accaduto. E il merito va anzitutto a Stati Uniti e Regno Unito, che si sono prontamente attivati per proteggere Israele con i loro caccia, in tandem con i sistemi anti-missilistici delle navi americane. Insieme, hanno abbattuto decine di missili da crociera (Paveh 351), aerei kamikaze senza pilota (Shahed 137), e missili balistici ipersonici Kheibar.

Ma anche alla Giordania, il cui appoggio a Israele – niente affatto scontato – ha rappresentato senz’altro la sorpresa più gradita per il governo Netanyahu durante quelle terribili ore. I droni iraniani Shahed 137, infatti, sono stati quasi tutti distrutti all’interno dello spazio aereo giordano, dunque ben prima che raggiungessero Israele e che l’Iron Dome si attivasse. Questo ha consentito a Gerusalemme di gestire al meglio la minaccia.

Perché Amman si è risolta per contribuire ad abbattere i droni iraniani? Ufficialmente «non tanto per difendere Israele quanto per preservare il nostro spazio aereo», come hanno tenuto a precisare le autorità giordane. Ma è pacifico che l’interesse in gioco sia ben altro: e più precisamente, la costruzione di un’alleanza filo-occidentale in Medio Oriente. Un obiettivo cui gli Stati Uniti lavorano da anni, insieme a Francia e Regno Unito, e che punta a coinvolgere la Giordania e l’Arabia Saudita in chiave anti-iraniana più che in favore di Israele. Come a far valere l’antico proverbio biblico secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico: «Se tu ascolti la sua voce e fai quanto ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l'avversario dei tuoi avversari» è scritto nel Libro dell’Esodo. Che certo a queste latitudini è stato studiato con attenzione.

Sauditi e giordani non sono mai stati teneri con Israele: in Giordania, per dire, un quinto della popolazione (pari a circa 2,3 milioni di persone) è palestinese, e Amman ha condannato aspramente l’invasione della Striscia di Gaza e mantenuto sempre le distanze da Gerusalemme. Ma, poiché Israele, Arabia Saudita e Giordania condividono una minaccia ben più grave per la loro stessa sopravvivenza, ovvero l’espansionismo iraniano, il fine giustifica ampiamente i mezzi a loro modo di vedere.

Entrambi i Paesi sono governati da monarchie sunnite, e guardano con estrema preoccupazione al progetto aggressivo dell’Iran di creare un corridoio sciita che da Teheran raggiunga il Libano (e dunque il Mar Mediterraneo) via Iraq e Siria. Anzitutto perché questo ha già provocato guerre e insurrezioni che minacciano la sicurezza dei loro confini, con Riad che ha dovuto persino entrare in guerra contro gli Houthi nello Yemen; e poi perché la «dottrina Suleimani» prevede di armare milizie informali e jihadisti anche sunniti come Hamas, affinché provochino guerre per destabilizzare l’intera regione, a beneficio di Teheran. Il generale iraniano Suleimani, capo delle brigate al Quds, è stato ucciso proprio per questa ragione dagli americani.

Gli Stati Uniti, che mantengono ottimi rapporti sia con Amman che con Riad, intendono spingere per una sempremaggiore integrazione tra i sistemi di difesa israeliani e quelli dei Paesi arabi: in chiave anti iraniana, anzitutto, ma anche in vista di un disimpegno dal Medio Oriente che cercano di compiere da tempo, per il momento senza grande successo. Ecco anche perché oggi la cabina di regia tra Gerusalemme e Washington è passata al Centcom – ovvero il centro di comando militare Usa nella regione, che include anche il coordinamento con i Paesi del Medio Oriente – e non più allo European Command.

Il coordinamento efficace delle operazioni belliche di sabato notte dimostra che la strategia americana di coalizzare un’alleanza militare intorno a Gerusalemme può avere successo e costituire la base per una normalizzazione dei rapporti tra Israele e mondo arabo, la cui prima pietra è in quei cosiddetti «Accordi di Abramo» che già Emirati Arabi Uniti, Marocco, Bahrein e Sudan hanno siglato, e a cui si vorrebbe ora legare anche la firma di Arabia Saudita e Giordania.

Mentre Riad è ormai a un passo dalla firma degli Accordi, la Giordania deve tenere conto di vari fattori: alleata degli Stati Uniti, il fatto di ospitare milioni di palestinesi rende molto basso il consenso della popolazione a queste iniziative di palazzo e gli stessi politici giordani estremamente diffidenti nei confronti di Israele. Dall’ottobre 2023 non a caso le autorità giordane stanno cercando di far fronte a una vasta protesta popolare. Protesta che ha già visto oltre un migliaio di persone arrestate dalle forze di sicurezza e d’intelligence «per aver espresso il loro sostegno ai diritti dei palestinesi di Gaza o per aver criticato le politiche del governo verso Israele», come ha chiarito più volte Amnesty International. Da qui le immagini del re di Giordania Abdallah II che indossa la divisa dell’esercito israeliano, in relazione alle qualiAmman ha varato addirittura una legge ad hoc sui crimini informatici: serve a impedire la diffusione di post sui social media che esprimono sentimenti anti-governativi, oppure che criticano gli accordi di pace o economici con le autorità israeliane o, peggio, quelli che invitano a scioperi e proteste pubbliche.

Sebbene i giordani restino dunque molto scettici della vicinanza con l’Occidente, il governo di re Abdallah vede invece con crescente favore una normalizzazione dei rapporti che da troppo tempo impediscono al Paese un pieno sviluppo. Su questo ha puntato in particolare il segretario di Stato americano Antony Blinken, che sin dall’insediamento dell’Amministrazione Biden promuove l’importanza per i Paesi arabi sunniti di coordinarsi costantemente a livello diplomatico con Washington e con Gerusalemme.

È stato proprio il precipitare degli eventi tra Israele e Hamas dal 7 ottobre 2023 in avanti a far emergere Egitto e Giordania come gli attori regionali da cui dipenderà il futuro equilibrio regionale. Un ruolo importante, che segna un capovolgimento di fronte rispetto alla storia recente, che li vide scontrarsi con Israele sia durante la Guerra dei Sei giorni del 1967 sia durante quella dello Yom Kippur nel 1973. Dopo di allora, però, Egitto e soprattutto Giordania hanno cambiato registro e partecipato a tutti i negoziati tra Israele e Hamas.

All’insegna della realpolitik e della ricerca di una stabilità nei rapporti e di una pace duratura, re Abdallah aveva persino organizzato ad Amman un vertice tra il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, il leader egiziano, Abdel Fattah al Sisi, e il leader palestinese, Mahmoud Abbas. Ma il sovrano è stato costretto ad annullare l’evento per evitare disordini nel Paese, in seguito al bombardamento di un ospedale palestinese e dei convogli umanitari ad opera di Gerusalemme. Ora che l’Iran è sceso direttamente in campo, però, si è passati a un livello successivo: dalle alleanze di oggi, dalla sopravvivenza di Israele e dalla sconfitta dei Pasdaran iraniani, passano anche i destini di sauditi e giordani. Simul stabunt vel simul cadent, «insieme staranno oppure insieme cadranno».

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Luciano Tirinnanzi