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Nassiriya nel 2003 (Ansa)
Dal Mondo

Nassiriya viaggio nella città che ci ha tradito

Come Eravamo

Da Panorama del 27 novembre 2003


«Movimento ore 6»: il parà del Tuscania che seguo nella missione di pattugliamento prende posizione al riparo di un muretto di pietra e punta il raggio laser del mitra verso la moschea. Solo le lampadine verdi del minareto e una debole falce di luna rischiarano la strada deserta. Si sentono alcuni colpi di fucile o di pistola. Vediamo uomini che imbracciano il kalashnikov correre a testa bassa e allontanarsi a bordo di un pick up.

«Movimento cessato». Possiamo avanzare dalla sponda dell'Eufrate in direzione del Saddam hospital, ribattezzato al-Jumhurriah, ospedale della repubblica, dove sono ancora ricoverati gli iracheni feriti nell'attentato terroristico del 12 novembre. Sono le 2 di una notte di ramadan e la città è immersa in un'oscurità quasi totale. Gli unici suoni sono i latrati dei cani randagi e i ragli degli asini. Attraversiamo miserabili quartieri addormentati: fogne a cielo aperto, mucchi di rifiuti, macerie di edifici crollati, pozze di putridi liquami e paludi di fango. Illuminata da un potente faro, la facciata di Animal House, la palazzina investita dall'esplosione che ha fatto strage dei nostri soldati, e che è poi stata saccheggiata da un'orda di famelici Ali Baba, è uno spettrale monumento all'11 settembre italiano: nel gigantesco cratere sono finite matasse di filo spinato, risme di carta, schegge di legno e frammenti di metallo contorto.

«Movimento ore 3, non sparate»: è il pick up che si avvicina, questa volta scortato da un'auto della polizia. Sono miliziani di al-Dawa, il più antico partito islamico iracheno: danno la caccia a un furgone senza targa, segnalato nei paraggi. «Bisogna stare attenti» spiegano i carabinieri. «C'è molto nervosismo, non è agevole distinguere tra amici e nemici. E le forze dell'ordine locali hanno il grilletto facile». A Nassiriya, come a Baghdad e nel resto del paese, la sicurezza è l'incubo dei civili e dei militari della coalizione. Lo ripetono i leader religiosi e i capi delle tribù, i commercianti del bazar e i cittadini che al tramonto si barricano in casa rispettando la tacita consegna di un coprifuoco imposto dal pericolo costante di assalti, rapine a mano armata, attentati, sparatorie. Ogni giorno i 1.200 soldati italiani che battono a tappeto la provincia di Dhi Qar scoprono nuovi depositi di armi, munizioni ed esplosivi: lunedì la task force Dimonios del colonnello Angelo Mura ha sequestrato 22 lanciagranate Rpg-7 di fabbricazione russa e irachena. Erano interrati in un campo nei pressi del villaggio di al-Shatra. «E' evidente» dice il generale Bruno Stano, comandante della Brigata Sassari «che la nostra presenza sul territorio, finalizzata al ripristino delle condizioni di sicurezza necessarie per garantire la ricostruzione, non è gradita a chi punta sulla destabilizzazione». La guerriglia ha ampliato nelle ultime settimane il raggio delle operazioni: gli scontri a fuoco, le azioni terroristiche e gli agguati contro i militari occidentali si moltiplicano in tutte le province irachene, dal Kurdistan allo Shatt al-Arab, da Mosul a Bassora. E per la sua posizione strategica Nassiriya, che fino al 12 novembre i kamikaze della jihad avevano risparmiato, rischia di trasformarsi in uno dei fronti più caldi del dopo Saddam. Da Nassiriya passa la principale via di comunicazione tra la capitale e Bassora. A sud, oltre le paludi dell'Haur al-Hammar, in parte prosciugate da Saddam per stanare i ribelli sciiti, si estendono i giacimenti petroliferi del grande bacino peninsulare da cui pompano greggio anche il Kuwait e l'Arabia Saudita. L'Iran è a poco più di un centinaio di chilometri di distanza. E a poche ore di jeep corre il lunghissimo e incontrollato confine saudita: una frontiera incerta, mai definita con precisione sulle carte, attraversata da piste che s'inoltrano nelle propaggini settentrionali del temibile deserto del Nafud. Spiega Sayed Abady al-Batat, presidente del consiglio municipale di Nassiriya, il «sindaco» della città che, arrestato nel 1996, ha passato sette anni nella sinistra prigione di Abu Ghraib, alle porte di Baghdad: «I terroristi che hanno ucciso gli italiani sono probabilmente venuti dall'estero. Nessuno è in grado di tenere sotto controllo i confini con la Siria, l'Iran, il Kuwait e soprattutto con l'Arabia Saudita. Non ci riescono gli americani, con i loro satelliti e la loro tecnologia, tanto meno noi, che non abbiamo neppure i mezzi di trasporto». Lungo le piste che da secoli percorrono i pastori nomadi con le greggi di pecore e cammelli transitano oggi i militanti di Al Qaeda e i mujaheddin arabi, confusi con i pellegrini diretti alle città sante di Kerbala e Najaf, travestiti da commercianti di bestiame o di elettrodomestici, aiutati dai contrabbandieri che, per una mazzetta di dollari, sono disposti a chiudere gli occhi e a non fare domande. Anche il sindaco, che dice di apprezzare i soldati italiani («Il loro è un compito tecnico, non politico: sono qui per garantire la nostra sicurezza»), ha parole durissime contro gli americani: «Hanno cacciato Saddam e questo ci sta bene. Ma se ne devono andare subito. Non accettiamo l'occupazione militare del nostro paese: se resteranno, li combatteremo armi in pugno. Tutti qui sono pronti a farlo». Identico l'atteggiamento dell'ayatollah Mohammed Baqr al-Nasri, che mi riceve nella piccola biblioteca di testi islamici attigua alla vecchia moschea nel centro storico di Nassiriya: «Il terrorismo è un'eredità di Saddam. Ma quando sono rientrato dall'esilio in Europa e in Iran, mi sono rifiutato di collaborare con gli americani. Nei 5 mila anni della nostra storia abbiamo sempre lottato contro gli oppressori e gli invasori stranieri. Vogliamo libertà e giustizia, non elicotteri e carri armati». Nassiriya conta più di 800 mila abitanti, quasi tutti sciiti di stretta osservanza religiosa: non c'è una sola donna che non indossi l'abaya imposta dalla tradizione, non c'è un negozio che venda una lattina di birra e non c'è una famiglia che non sia in lutto per la morte di un parente ucciso durante le sanguinose repressioni del regime nei primi anni Novanta. Ma ovunque, negli istituti coranici e nelle stazioni della polizia, nei vicoli del bazar e nei ristoranti che alle 5 della sera si riempiono per celebrare la rottura del quotidiano digiuno, si coglie un atteggiamento ambivalente, che oscilla tra la gratitudine e lo sconforto, la delusione e la rabbia. Nassiriya è l'unica città irachena dove i ragazzini e i lustrascarpe hanno imparato a salutarti con un «ciao». Ma la simpatia nei confronti degli italiani e il sincero dolore per la strage della scorsa settimana sono offuscati dal crescente risentimento verso le forze di occupazione. «Americani» è scritto sui muri e sui cartelli stradali della città «la vostra missione è finita: andatevene». Sulle porte e ai davanzali sono stesi i drappi neri con i nomi dei martiri di questa nuova guerra, nella quale la sottile distinzione tra «costruttori di pace» e nemici anglo-americani, sempre meno comprensibile alla gente, è stata forse definitivamente seppellita sotto le macerie di Animal House.

Le critiche nei confronti degli italiani, anche se velate, del resto non mancano. «Devono aiutarci invece di sequestrarci le armi» afferma lo sceicco Ali Mohammed al-Munshid, capo della potente tribù dei Ghazi, seduto sotto una grande tenda beduina di fronte alla sua casa di campagna e circondato da notabili armati di pistole e fucili. Al-Munshid, che prima dell'attentato del 12 novembre aveva segnalato alla polizia la presenza di individui sospetti («Non un preciso avvertimento come hanno scritto alcuni giornali»), era entrato a Nassiriya in aprile con i tank americani e, dopo un breve periodo come governatore, è stato emarginato. «Qui, a differenza di Kerbala e Najaf, i religiosi non sono l'unico interlocutore: le tribù hanno conservato un ruolo importante ed è un errore non cercarne la collaborazione». Anche lo sceicco Abu Haidar, dirigente di spicco di al-Dawa, ha qualcosa da recriminare: i militari italiani hanno arrestato alcuni militanti armati del partito. «Così ci impediscono di lavorare» sostiene Abu Haidar, che organizza i comitati di sicurezza di quartiere in collaborazione con le milizie religiose. «Solo noi, che viviamo in mezzo alla gente, siamo in grado di svolgere un'efficace attività antiterroristica. Grazie a noi, a Bassora, due giorni fa è stato sventato un attentato: abbiamo bloccato due siriani e un poliziotto iracheno che stavano piazzando del tritolo sotto un ponte». La carenza di «humint» (human intelligence), che la stessa Cia ha riconosciuto e che sta cercando di colmare, è stata una delle cause dei molti errori compiuti dall'amministrazione Bush nella gestione del dopo Saddam. Gli informatori e gli infiltrati sono decisivi nella prevenzione degli atti terroristici in un ambiente di guerriglia generalizzata, in cui le rivendicazioni più o meno attendibili e le sigle dei movimenti armati si moltiplicano. Il comando italiano intensifica i rastrellamenti casa per casa, i pattugliamenti notturni, le incursioni nei villaggi e i posti di blocco, ma sta soprattutto operando per rafforzare il settore dell'intelligence. Nassiriya, infatti, pullula di individui sospetti. Nelle ultime settimane sono giunti in città, apparentemente senza motivo, numerosi wahabiti barbuti partiti da Ramadi, nel nord sunnita: tentano di spacciarsi per predicatori itineranti, ma la polizia non esclude un loro coinvolgimento nell'attentato contro gli italiani. Altri sunniti di nazionalità irachena sono arrivati da Falluja e da Tikrit, terra natale del deposto rais, alimentando le illazioni sul «patto scellerato» che i feddayin di Saddam avrebbero stretto con Al Qaeda e con gli integralisti sciiti del Sud. Da Najaf, dove lo sceicco fondamentalista Muqtada al-Sadr recluta i futuri martiri della guerra santa contro Bush, filtrano le cellule armate dell'esercito del Mahdi. E dal Kuwait e dall'Arabia Saudita proviene un flusso incessante di pachistani ufficialmente in cerca di lavoro. Alcuni di loro sono stati arrestati: nel loro bagaglio, insieme al Corano, sono state scoperte armi, confezioni di esplosivo e una foto di Osama Bin Laden.

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Giovanni Porzio