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(Ansa)
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La storia del dissenso in Russia dice che la fine di Navalny non è una novità

Per Marco Clementi, storico dell’Europa orientale e delle relazioni internazionali, «da Boris Pasternak a Navalny, il governo centrale russo continua a reprimere ogni forma di dissenso»

Ripercorrendo la lunga parabola dell’opposizione al potere costituito, lo studioso evidenzia come «si stia manifestando una nuova stagione del dissenso, sulla scia del movimento che permeò ogni settore della vita dell’ex Unione sovietica». E proprio qualche ora fa Oleg Orlov, co-presidente di Memorial (l’organizzazione per i diritti umani fondata da Sacaharov cui è stata assegnata il premio Nobel per la pace nel 2022), si è visto condannare a 2 anni e mezzo per un articolo contro l’invasione dell’Ucraina.

La scomparsa di Aleksej Navalny, morto il 16 febbraio scorso in circostanze misteriose all’interno della colonia artica IK-3 nella regione russa di Yamalo-Nenets dove era rinchiuso per scontare una pena di oltre trent’anni di reclusione, ha riproposto il mai sopito tema del dissenso all’interno della Russia, e, di rimbalzo, fatto ritornare alla mente il più ampio fenomeno nell’ex impero sovietico. Per gli studiosi è ancora vivo quel meccanismo che creava l’incompatibilità tra intellettuali e potere in Urss: ovvero l’idea stessa di “dissenso”, inteso come campo di riflessione e di azione di tutti “coloro che pensano in altro modo”. Insomma, gli oppositori -intellettuali o teorici delle libertà- continuano a svolgere un ruolo insostituibile nella storia della Russia contemporanea, esattamente come accadeva sotto l’ex impero sovietico.

Panorama.it ha dialogato con il professor Marco Clementi per i dettagli sugli ultimi avvenimenti che stanno scuotendo le coscienze di mezzo mondo.

Professor Clementi, partiamo dalla fine della lunga parabola del “dissenso”…

«La fine significa parlare, ovviamente di Aleksej Anatolievich Navalny e della sua misteriosa morte in un carcere di massima sicurezza nella sperduta Siberia, la regione della Russia in pieno Artico, dove si trovava recluso dallo scorso dicembre a seguito di una condanna che gli era stata comminata nel giugno del 2023 con l’accusa di estremismo: diciannove anni di carcere che si erano aggiunti ai nove cui era stato condannato, nel marzo del 2022, per frode e violazione della libertà condizionale. Personaggio carismatico, Naval’nyj era un avvocato da sempre attivo contro il malaffare che combatteva senza timore alcuno del suo acerrimo nemico, Vladimir Putin».

Lei avrà notizie di prima mano, sulla vicenda….

«Ovviamente nessuno di noi possiede notizie precise e confermate su quanto accaduto e la confusione è ancora tanta. La vulgata di questi giorni fa riferimento ad una misteriosa morte da addebitare al governo di Putin, invece a dar credito al capo della Direzione principale dell’intelligence ucraina, Kirilo Budanov, intervistato da Ukrainska Pravda, l’evento sarebbe da collegare ad una trombosi che non avrebbe dato scampo al 47enne oppositore. Una morte naturale, insomma…».

Al di là degli aspetti medico-legali della vicenda, Navalny vivo pesava sulla coscienza politico-istituzionale della Russia di Putin…

«L’evento-morte rappresenta una costante nella lunga parabola del dissenso sovietico e russo: stabilire le cause della sua morte, oggi, significa fare luce anche sul nostro modo di comprendere fino a che punto fosse arrivata l’ossessione del potere russo nei suoi confronti. Al di là delle cause della sua morte (avvelenamento chimico, malore fatale, violenza fisica) il punto è di natura politica: Navalny è morto all’interno di una delle prigioni più dure della Russia, mentre stava scontando una condanna per fatti che mai aveva commesso»

Insomma, direttamente o indirettamente, si arriva alle alte sfere istituzionali?

«Non dimentichiamo che il trasferimento all’interno di questa terribile casa di reclusione è avvenuto in pieno dicembre, cioè con l’evidente obiettivo di aggravare le sue già precarie condizioni di salute, sulle quali pesavano gli esiti del famigerato avvelenamento del 20 agosto del 2020, quando Navalny accusò un grave malore sul volo diretto da Tomsk (nel sud della Siberia) a Mosca: dopo l’atterraggio di emergenza e le prime cure, si scoprì che fosse stato avvelenato. Da protocollo fu posto in coma indotto dal quale uscì miracolosamente tre settimane dopo».

Tutti si chiedono cosa accadrà dopo la sua morte.

«La sua scomparsa contribuirà, ovviamente, a riportare in primo piano il tema del “dissenso” come fenomeno storico sviluppatosi tra il 1953 e il 1991. Se dall’invasione dell’Ucraina ad opera della Russia è aumentato il numero dei dissidenti russi costretti ad abbandonare la patria, non possiamo dimenticare che una parte consistente degli attivisti sia rimasta entro i confini, attirando l’attenzione politico-mediatica internazionale esattamente come accadeva nel periodo storico in cui, come detto, il dissenso si sviluppò. Tranne per rari casi, infatti, sulle morti dei dissidenti nell’ultimo settantennio -qualunque ne sia stata la causa- non è mai stata fatta piena luce. Con Navalny la situazione è destinata a cambiare radicalmente…».

In che senso, ci perdoni?

«Semplice: la sua morte (l’uccisione è il termine più corretto) contribuirà a dimostrare come, in realtà, sia sempre esistita la precisa strategia politica diretta a colpire tutti coloro che hanno sfidato (e continuano a farlo…) apertamente il potere assoluto del Cremlino. La parabola storica è evidente: non può più essere un caso che chiunque abbia sfidato il potere costituito sia letteralmente scomparso! Il dissenso e la morte sembrano conseguenziali».

La sua è un’affermazione forte…

«Per ragioni di studio, ricerche sul campo e relazioni, so bene come nell’ambiente dei dissidenti una parte degli attivisti si sia convinta dell’opportunità di lasciare la Russia proprio per sfuggire ad una morte sicura, opinione del resto condivisa, proprio di recente, da Vera Politkovskaja, la figlia di Anna, la ben nota giornalista e attivista per i diritti umani ritrovata morta nell’ascensore del suo palazzo, a Mosca, il 7 ottobre 2006».

E chi, invece, ha scelto (o è stato costretto…) di rimanere in Russia?

«Emblematico è il caso di Oleg Orlov che proprio nelle scorse ore è stato condannato a due anni e sei mesi di carcere: “discredito delle forze armate russe” l’accusa per un articolo pubblicato nel novembre del 2022 sul sito di francese Mediapart nel quale aveva criticato l’invasione russa dell’Ucraina. Non dimentichiamo che Orlov è il vice-presidente di Memorial, la celebre organizzazione internazionale per i diritti umani sciolta in Russia nel 2021 (opera all’estero….), cui nel 2022 è stato assegnato il premio Nobel per la pace. Pensiamo che Orlov era stato condannato in primo grado a pagare una multa, ma dopo l’appello dell’accusa, è arrivata la condanna ben più pesante!».

Professore, torniamo alle origini del dissenso…

«Nel 1973 Tat’jana Chodorovich, una delle principali protagoniste di quella stagione, definì “dissidenti” “coloro che pensano in altro modo” ovvero “inakomysljascie”: si trattava di far acquistare dignità umana, prima ancora che sociale e politica, a quanti si battevano per il rispetto, da parte dell’autorità, dei diritti civili quali la libertà di opinione, di movimento, di espatrio, di espressione, sanciti dalla Costituzione sovietica e dai documenti internazionali firmati da Mosca, quali la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e l’Atto finale della Conferenza di Helsinki del 1975».

Il “dissenso” riguardava il rapporto tra individuo e autorità?

«Certo, tra libertà del singolo e interesse generale, e non è un caso che le prime istanze provenissero dal mondo letterario, più sensibile a questo tipo di problema. Il dissenso come movimento iniziò, infatti, a prendere coscienza di sé proprio nel momento in cui le autorità inizieranno ad arrestare, in varie ondate storiche, alcuni tra i giovani intellettuali più impegnati come Vladimir Bukovskij, Aleksandr Solzhenicyn, Natal’ja Gorbanevskaja, Iosif Brodskij, Pavel Litvinov, Andrej Sinjavskij, Jurij Galanskov e altri».

Poeti, scrittori, intellettuali: un movimento non violento, pare di capire…

«La non-violenza fu la sua cifra identificativa, unitamente all’assenza di un programma politico condiviso alternativo a quello del Pcus, della scomparsa di gruppi segreti e della nascita di organizzazioni informali, che oltre alla legislazione nazionale si appellavano alle convenzioni e ai patti internazionali firmati dall’Urss. Le forme di lotta erano chiare e manifeste: si pubblicavano giornali, libri, articoli, quasi tutti rigorosamente firmati e che costituivano un unico e vasto campo di informazione alternativa a quella ufficiale, il cosiddetto samizdat, ossia l’autopubblicazione».

Il fenomeno del dissenso è periodizzabile in meno di un cinquantennio, tra il 1953 e il 1991.

«Tra due date simboliche, l’anno della morte di Stalin e quello della promulgazione della legge sulla riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche. In mezzo almeno sei periodi: 1953-1964, con i fermenti della gioventù moscovita e l’allontanamento di Chruscev; 1965-1967, con il nuovo establishment di Leonid Brezhnev che cerca di riportare indietro il Paese; 1968-1972 con la proclamazione del 1968 di Anno dei diritti umani da parte delle; 1973-1974 con l’apertura della sezione russa di Amnesty International; 1975-1982, con la Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, il conferimento del Premio Nobel a Sacharov e il suo successivo esilio a Gor’kij; 1983-1991, con il ritorno dell’iniziativa riformatrice del partito comunista e l’avvento della perestrojka di Michail Gorbachov».

A proposito di Sacharov e Gorbachov…

«Il loro fu un rapporto conflittuale. Vorrei sottolineare due momenti che li videro protagonisti: il primo quando, tornando dall’esilio, Sacharov ricordò con Gorbachov la figura di Anatoliy Marcenchko, l’ultimo dissidente a morire in carcere in Unione Sovietica, esattamente l’otto dicembre del 1986. E il secondo, quando proprio durante i funerali di Sacharov, il 18 dicembre del 1989, Gorbachev chiedendo alla moglie Elena Bonner cosa potesse fare per la loro famiglia, si sentì rispondere una “legge per far registrare Memorial come organizzazione non governativa”».

La vicenda di Boris Pasternak e del suo Dottor Zivago è rimasta emblematica…

«Addirittura incrociando la storia contemporanea italiana grazie alla pubblicazione dell’opera da parte del giovane editore Giangiacomo Feltrinelli: i servizi segreti sovietici vennero a conoscenza del corposo scambio epistolare tra Feltrinelli e Pasternak e insieme al Partito cercarono di bloccare la pubblicazione dell’opera».

Il romanzo, fortunatamente, vide la luce…

«Nel 1957 e in pochissime settimane furono stampate più di trenta edizioni, facendone un clamoroso successo internazionale. Pasternak pagò, per la pubblicazione all’estero, con l’ostracismo e la rinuncia al Nobel per la Letteratura, di cui fu insignito nel 1958, due anni prima della morte».

Professore, l’avvento di Putin ha fatto emergere un secondo dissenso?

«Si è sempre pensato che finita l’Unione sovietica e aperti gli archivi storici – si parlò di rivoluzione archivistica – la ricerca della verità sul passato staliniano sarebbe stata uno dei pilastri su cui costruire la nuova Russia. Da quando Putin è al potere ci siamo imbattuti in un ritorno al passato, e a farne le spese sono stati proprio quei luoghi della documentazione storica, riaperti soltanto qualche anno prima, e frettolosamente richiusi.

Ha fatto riferimento a Vera Politkovskaja: il fantasma della madre si materializza….

«Anna è stata una giornalista e narratrice di razza: proprio durante la seconda guerra cecena era impegnata sulle pagine di Novaja Gazeta a pubblicare numerose inchieste scomode e reportage scottanti dalle aree del conflitto (Cecenia, Daghestan e l'Inguscezia). Criticava apertamente il presidente Putin e le sue diramazioni politiche locali, che considerava fantocci di Mosca».

A proposito di nuovo dissenso: il caso di Memorial è emblematico.

«Fondata a Mosca il 28 gennaio del 1989 da Andreij Sacaharov, con sedi in tutte le repubbliche ex sovietiche, Memorial (Мемориалinrusso) ha rappresentato per oltre trent’anni la nuova stagione della difesa dei diritti umani, guadagnandosi anche il riconoscimento internazionale grazie al sostegno del Consiglio d’Europa. L’organizzazione ha promosso la società civile, la coscienza giuridica e critica dei cittadini, lo stato di diritto, insieme alla ferma opposizione al ritorno del totalitarismo, l’assistenza nei casi di violazioni dei diritti umani e la riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche. Furono questi i valori della sua mission. Sino all’assegnazione del premio Nobel per la pace il 7 ottobre del 2022…».

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Marco Clementi, romano di nascita e milanese di adozione, classe 1965, è professore associato di Storia delle Relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria, dove insegna anche storia dell’Europa orientale. Le origini ucraine materne (originaria del Donbas), hanno contribuito ad una formazione culturale e scientifica svolta tra Roma e San Pietroburgo, con specializzazione in Repubblica Ceca, Austria, Ungheria, Stati Uniti e Grecia. Dal 2004 ha collaborato a lungo con Memorial di San Pietroburgo (insignito del Premio Nobel per la Pace 2022), di cui è stato anche membro del comitato scientifico. Ricerca e periodi di soggiorno nelle città dell’ex impero sovietico gli hanno permesso di calarsi a fondo nella società sovietica e poi russa: la sua Storia del dissenso sovietico. 1953-1991 (Odradek Edizioni, 2007) restituisce lo spaccato storico e socio-antropologico del fenomeno del dissenso.

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Egidio Lorito