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(Ansa)
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I dubbi che aleggiano sull' "opzione Kamala"

In un'intervista al Wall Street Jorunal, la Harris si è detta "pronta a servire". Ma la sua (eventuale) strada verso la presidenza è più accidentata di quanto possa sembrare

Ha fatto un certo scalpore l’intervista recentemente rilasciata da Kamala Harris al Wall Street Journal. La numero due della Casa Bianca ha infatti affermato di “essere pronta a servire” come presidente. Parole che sono state pronunciate appena due giorni prima che venisse pubblicato il rapporto del procuratore speciale, Robert Hur: rapporto in cui sono stati sottolineati dei significativi problemi di memoria da parte di Joe Biden. A ben vedere, non è la prima volta che la Harris si esprime in questi termini. Lo scorso settembre, aveva infatti detto alla Cbs di essere pronta a diventare presidente, “se necessario”.

Analizziamo innanzitutto la questione dal punto di vista tecnico. La successione presidenziale è disciplinata dal Venticinquesimo emendamento, che fu ratificato nel 1967. La prima sezione recita come segue: “In caso di rimozione del presidente dalla carica o di sua morte o dimissioni, il vicepresidente diventerà presidente”. Va da sé che tale dispositivo scatterebbe nel caso Biden decidesse di fare un passo indietro, dimettendosi dalla carica. Uno scenario che non si può del tutto escludere, ma rispetto a cui l’attuale inquilino della Casa Bianca non sembra affatto propenso. Finora, l’unico caso di dimissioni di un presidente risale al 1974, quando Richard Nixon lasciò il posto al suo vice, Gerald Ford, in conseguenza dello scandalo Watergate.

Un secondo scenario riguarda invece la quarta sezione del Venticinquesimo emendamento, secondo cui il presidente può essere destituito, se considerato incapace di svolgere il proprio ruolo. Non a caso, a seguito del rapporto di Hur, alcuni parlamentari repubblicani hanno chiesto al Dipartimento di Giustizia di considerare una simile opzione. Eppure si tratta di uno scenario assai improbabile. Innanzitutto dovrebbe muoversi la maggioranza dei ministri. In secondo luogo, in caso di opposizione da parte del presidente, la palla passerebbe al Congresso che, per arrivare a un’eventuale destituzione, necessiterebbe di un quorum pari a due terzi dei voti. Si tratta quindi di un percorso lungo e accidentato, che rischierebbe di spaccare ancora di più il Partito democratico.

Il terzo scenario è che l’attuale presidente, pur non dimettendosi dalla carica, annunci di abbandonare la corsa per la rielezione. In quel caso, la parola spetterebbe alla Convention nazionale di agosto e non vi sarebbe alcun automatismo a favore della Harris. La vicepresidente entrerebbe certamente in lizza per ottenere la nomination dem. Tuttavia non avrebbe alcun diritto di precedenza su altri potenziali candidati ed è tutto da dimostrare che la maggioranza dei delegati sceglierebbe di virare su di lei. Non dimentichiamo infatti che la Harris continua a essere una figura fortemente impopolare: secondo il sito FiveThirtyEight, il tasso di disapprovazione dell’attuale numero due della Casa Bianca risulterebbe superiore al 53%.

Non è d’altronde un mistero che la Harris abba deluso le aspettative di molti. Nel suo ruolo di vicepresidente è stata fondamentalmente impalpabile. Inoltre, a marzo 2021, Biden l’aveva incaricata di affrontare la crisi migratoria alla frontiera meridionale, cercando di disinnescarla per via diplomatica insieme ai Paesi del Centro America: un obiettivo che la diretta interessata non è riuscita a conseguire. Non solo, sotto Biden, si è assistito al record storico di arrivi di immigrati irregolari al confine con il Messico, ma gli Stati Uniti hanno anche perso progressivamente influenza sull’America Latina. Ecco perché, qualora si verificasse una Convention aperta, non è affatto scontato che i delegati punterebbero automaticamente sulla Harris. Almeno in linea teorica, è più probabile che emergerebbero altre figure: a partire dal governatore della California, Gavin Newsom, che - un anno fa - ottenne parole di apprezzamento dall'ex consigliere di Barack Obama, David Axelrod.

E comunque alla fine il nodo resta. Se tutto dovesse essere deciso alla Convention (come accadeva un tempo), ciò potrebbe trasformarsi in un boomerang elettorale. È vero che la maggior parte degli elettori dem oggi vorrebbe un candidato diverso da Biden. Ma è tutto da dimostrare che, in caso, apprezzerebbe un’assegnazione della nomination che bypassasse le primarie. Da questo punto di vista, il (parziale) precedente del 1968 potrebbe rivelarsi un monito inquietante: quell’anno, l’allora vicepresidente, Hubert Humphrey, ottenne la nomination dem senza passare dalle primarie e venne successivamente sconfitto da Nixon alle presidenziali. Insomma, il Partito democratico potrebbe ritrovarsi davanti a un dilemma senza via d’uscita. E l’ “opzione Kamala” rischia solo di peggiorare la situazione.

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Stefano Graziosi