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(Ansa)
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Guerra in Ucraina: le armi chimiche non risolverebbero nulla sul campo

Le voci di un possibile uso di armi chimiche da parte di Mosca avrebbe più conseguenze sulle relazioni internazionali che nella conquista dell'Ucraina

Non si è fermata nemmeno a Pasqua la guerra scatenata in Ucraina da Vladimir Putin. Il conflitto che ha ormai superato i cinquanta giorni, continua a mietere vittime tra l’esercito russo che secondo le stime ucraine avrebbe perso più di 20.300 uomini. Un numero enorme che la Russia non conferma così come Mosca non commenta le stime sempre ucraine, dei mezzi persi dall’esercito russo; 165 aerei da caccia, 146 elicotteri e 148 droni abbattuti, 773 carri armati russi, 376 pezzi di artiglieria, 2.002 veicoli blindati per il trasporto del personale, quattro sistemi di missili balistici a corto raggio, 127 sistemi di lanciamissili, otto navi tra le quali il clamoroso affondamento dell’incrociatore Moskva, 1.471 veicoli, 76 autocisterne per il rifornimento di carburante, 66 unità di difesa antiaerea e 27 unità di equipaggiamenti speciali. Secondo le stime del presidente, Volodymyr Zelensky, l’Ucraina avrebbe perso circa 3.000 soldati ma è il numero dei civili morti che preoccupa. Impossibile ad oggi avere una stima reale tuttavia ad oggi, le stime parlano di almeno 3.000 morti tra i quali ci sono più di 200 bambini. Il grande punto di domanda riguarda il numero dei morti di Mariupol città martire la autorità ucraine temono che sotto le macerie ci siano 10.000 vittime civili.

A proposito delle perdite russe il Generale di Corpo d’Armata Maurizio Boni che nella sua lunga carriera ha ricoperto importanti incarichi in seno alla Nato, osserva che «i russi hanno messo in campo la maggior parte delle risorse pregiate in termini di unità professionali e hanno subito molte perdite. Molti parlano di combat power (capacità di combattimento) delle unità riferendosi solamente ai dati numerici di effettivi disponibili in linea. Non c’è nulla di più sbagliato poiché se intendiamo il combat power come la capacità effettiva operativa che un’unità può esprimere, questa dipende da molti parametri fondamentali come l’addestramento, la capacità di manovra, il fuoco, il comando e controllo, la logistica, il morale e la motivazione. Per questo “ricostituire” un’unità che ha subito ingenti perdite in combattimento (e non solo di uomini) richiede molto tempo, ammesso che si disponga poi di tutti i materiali e i mezzi da ributtare nella mischia. In sintesi (aspetto fondamentale): la capacità operativa di un’unità non è la somma delle capacità dei singoli soldati o ufficiali».

Tra i soldati russi deceduti sul campo di battaglia ci sono ben otto generali; l’ultimo ucciso nei giorni precedenti la Pasqua è stato il vicecomandante dell'ottava armata del distretto meridionale Vladimir Frolov che aveva partecipato all’assedio della città di Mariupol. L’annuncio della morte del generale Frolov subito tumulato nella sua città natale,è stato dato all'agenzia Ria Novosti da Aleksander Beglov governatore di San Pietroburgo.Mentre la guerra sul campo infuria quella delle parole da una parte e dall’altra, non accenna a diminuire. Alla CNN il Presidente ucraino ha dichiarato che Putin potrebbe decidere di usare ordigni nucleari tattici o armi chimiche: «Il mondo dovrebbe prepararsi a questa eventualità, per lui la vita umana non ha valore; sarebbe un attacco non solo all'Ucraina. Non dovremmo avere paura, ma essere preparati. Noi siamo preparati». Mentre solo qualche ora prima, un suo consigliere aveva dichiarato «che non c'erano avvisaglie concrete di un attacco nucleare». A loro ha fatto eco il direttore della Cia, William Burns, che ha detto che «non bisogna prendere alla leggera il possibile ricorso di Putin alle armi nucleari».

Ma è ipotizzabile uno scenario di questo tipo? Secondo l’analista strategico Franco Iacch «È impossibile capire quale evento convincerebbe Putin a varcare la soglia nucleare. Qualsiasi impiego di un’arma nucleare non strategica in Ucraina non avrebbe verosimilmente obiettivi militari o civili specifici, ma dimostrerebbe soltanto la volontà di utilizzarla per concludere un conflitto regionale a condizioni accettabili per la leadership russa. Se il Cremlino lanciasse un’arma tattica da teatro, tenterebbe di gestire l’escalation per plasmare a suo vantaggio le decisioni dell’avversario (quindi come mezzo per influenzare l'esito di una guerra regionale)».

La detonazione di un’arma nucleare scalare sul Mar Nero o sull'Atlantico settentrionale servirebbe da drammatico avvertimento per la resistenza alla campagna militare e la NATO, sostenuta dalla coercitiva minaccia di ulteriori attacchi non strategici. «In entrambi gli scenari» -continua Iacch- «gli effetti sull’opinione pubblica internazionale sarebbero devastanti. Se Putin intensificasse improvvisamente il conflitto infrangendo il tabù nucleare, si entrerebbe in un'era completamente nuova con ipotetici modelli di escalation guidati da logiche inesplorate. Nuove e graduali traiettorie irrazionali riplasmerebbero la rispettiva percezione. Dobbiamo anche riconoscere che la deterrenza nucleare potrebbe fallire. Quella dimostrazione tattica sarebbe in ogni caso concepita per far deragliare quella che, ad oggi, è stata una risposta alleata coerente a supporto e sostegno dell’Ucraina».

A quel punto che farebbero gli Stati Uniti ? «L’ipotetico impiego russo di armi nucleari tattiche a basso rendimento in Ucraina non abiliterebbe la rappresaglia termonucleare degli Stati Uniti (riformulando il concetto, il possesso di armi strategiche garantisce ai Paesi nucleari una immunità virtuale da un'efficace risposta militare). La Casa Bianca, infatti, non ha vincoli di deterrenza estesa con il governo ucraino. La risposta flessibile spetterà all’infallibilità del Presidente degli Stati Uniti. E’ impossibile conclude- Iacch stabilire cosa accadrà dopo la detonazione di un asset nucleare. I rispettivi costrutti teorici elaborati, dalla gestione dell’escalation russa all’ambiguità calcolata statunitense, non sono mai stati testati nel mondo reale. La resa di una qualsiasi arma nucleare sarà sempre strategica».

Altro tema delicatissimo è quello relativo alla possibilità che la Russia decida di utilizzare le armi chimiche. Si tratta di un’eventualità della quale ha parlato il premier britannico Boris Johnson qualche giorno fa avvisando il Presidente russo sulle conseguenze di un simile atto: «Mi auguro che Putin capisca che una scelta simile sarebbe profondamente catastrofica per lui». Secondo il Generale Boni arrivare a tanto sarebbe un segnale di disperazione dei russi «per quanto paradossale possa sembrare, le armi chimiche non sono mai state risolutive nei conflitti. È stata sempre l'arma dell'ultima risorsa e della disperazione. Il gas, infatti, è sempre stato impiegato per ottenere effetti limitati (cioè tattici) disperdendo truppe, negando momentaneamente l’occupazione o la rioccupazione di parti di territorio significativi per le operazioni o in extremis per sottrarre sempre in porzioni molto limitate di un fronte, le proprie truppe al completo annientamento. Se i russi le impiegassero, sarebbe un ulteriore segno della loro debolezza militare. Lo faranno se non riusciranno a ottenere i successi sperati in alcuni settori dell'offensiva. Purtroppo, non è escluso che le possano usare indiscriminatamente anche contro la popolazione civile».

E quale potrebbe essere la sostanza che i russi userebbero? «Il Sarin è uno degli aggressivi chimici più comuni. Quello usato tra l’altro in Siria da Assad con il sostegno di Mosca». Infine negli scorsi il Cremlino ha minacciato Svezia e Finlandia che si appresterebbero ad entrare nella NATO un tema sul quale il Gen. Boni ci aiuta a far chiarezza: «Militarmente non cambia nulla. Gli strumenti militari dei due paesi sono perfettamente integrati con quelli dei membri dell’Alleanza atlantica. Inoltre, ufficiali di staff di vari livelli operano nella struttura di comando della NATO. Politicamente, cambia moltissimo poiché l’estensione delle clausole dell’Articolo 5 del Trattato di Washington a questi due Paesi un tempo neutrali apre di fatto ufficialmente il confronto nella dimensione settentrionale dell’Alleanza, in un momento dove, forse, avevamo più bisogno guidare gli esiti del confronto già in atto ad est».

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Stefano Piazza