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Dal Mondo

La Germania europeista si vende (il porto di Amburgo) alla Cina

Il cancelliere Scholz favorevole alla cessione di una parte del principale scalo tedesco ai cinesi; ma mezza maggioranza non ci sta e non vuole rimettersi ancor di più nelle mani di Pechino

Potremmo definirla la «sindrome di Berlino», anche se non differirebbe molto dalla «sindrome di Stoccolma». È quella tendenza della politica tedesca a farsi ostaggio di politiche energetiche discutibili, e a legarsi indissolubilmente ai propri carcerieri energetici. I quali, in cambio, finanziano l’economia tedesca e favoriscono l’idea internazionale di una Deutschland uber alles rispetto all’Europa unita, cui la Germania è incappata sovente nella sua storia recente, inficiando spesso le politiche comunitarie e ogni sforzo verso la costruzione di una politica e un indirizzo comuni dell’Unione.

Una riprova? Dopo la dipendenza energetica dalla Russia, adesso Berlino – o meglio, il suo cancelliere Scholz – si vorrebbe legare alla Cina, attraverso la vendita del porto di Amburgo ai cinesi di Cosco: un’offerta che comprende la cessione del 35% delle quote di Tollerort, la società che oggi gestisce il colossale terminal dei container amburghese. È questo che Scholz andrà a discutere direttamente con il presidente Xi Jinping il prossimo 4 novembre, quando il cancelliere socialdemocratico sarà il primo leader occidentale a marcare visita a Pechino dopo la pandemia e le durissime restrizioni imposte dal governo.

Sebbene i rapporti tra Amburgo e le città portuali cinesi siano antichi, la debolezza di questo nuovo potenziale accordo è sotto gli occhi di tutti: consiste soprattutto nella disastrosa esperienza sopra citata, quando cioè Angela Merkel intese legare i destini energetici (e dunque economici) della Germania alle forniture russe di idrocarburi, per alimentare le proprie industrie energivore e poter smantellare l’industria del carbone in ossequio alla transizione energetica. Disastrosa esperienza perché, a conti fatti, è bastata una guerra – e le relative sanzioni – per mettere a nudo la debolezza di un rapporto, ancor prima personale che politico, tra Merkel e Putin.

Un legame troppo sbilanciato, come è emerso in tutta la sua evidenza quando le due linee del gasdotto Nord Stream - che collegava direttamente Russia e Germania attraverso il mar Baltico - sono state fatte saltare in aria da una potenza straniera (non ci soffermeremo sul chi e sul come) proprio per tagliare quel cordone ombelicale, considerato nefasto tanto per i destini dell’Occidente quanto dell’Alleanza atlantica. Della serie, dopo l’invasione dell’Ucraina non si può più «andare a letto col nemico».

Tale politica merkeliana, che tanta fortuna e altrettanti risparmi ha generato per il comparto industriale tedesco, ha però rivelato tutti i suoi limiti nel momento in cui la diversificazione delle fonti non è mai avvenuta, mentre il programma nucleare nazionale andava in obsolescenza e il piano di decarbonizzazione richiedeva acquisti ancora più ingenti del prezioso gas siberiano. Certo, il prezzo e la qualità dell’«oro di Mosca» sono valsi a lungo la candela. Ma in definitiva quella scelta ha rivelato come Berlino sia in realtà un gigante dai piedi d’argilla, che ha scommesso tutto su un’unica infrastruttura d’interesse nazionale, senza pensare alle possibili conseguenze. E dire che la Germania conosce bene gli istinti di dominio russi. Ma tant’è.

Quando lo scorso giugno il Bundestag ha deciso di investire 100 miliardi di euro per il riarmo della Germania, portando gli investimenti bellici al 2% del Pil nazionale, la Nato ha esultato per la scelta quasi inaspettata del nuovo governo: era dai tempi di Barack Obama che gli Stati Uniti chiedevano agli alleati europei più contributi per la difesa atlantica. È stato proprio Olaf Scholz a intestarsi questa svolta politica, dopo decenni di ostentato pacifismo. Lo stesso che oggi vorrebbe consegnare un asset cruciale per il futuro industriale tedesco ai cinesi. Che cosa non torna?

Come ha ben sentenziato Daniel Mosseri - autore del saggio Angela e Demoni (Paesi Edizioni, 2021) sulla fine del quindicennio di dominio della Mutti - la Germaniaè sì un gigante economico, ma a ben vedere si rivela anche un nano politico: «Con i tedeschi si può fare business, ma sulle questioni strategiche e di difesa non ci sarebbe da fare troppo affidamento».

La logica mercantilistica adottata dalla cancelliera, in effetti, ha sempre puntato a privilegiare e tutelare gli interessi economici e la stabilità esclusivamente tedesca, sacrificando (quando non boicottando direttamente) le politicheeuropee e ogni negoziazione tra i Paesi dell’Ue. Tutto ciò, con la pretesa di volersi intestare la leadership d’Europa e agendo come una sorta primus inter pares in seno all’Unione, forte della nomea di «locomotiva d’Europa».

Lo ha fatto già con il rigorismo finanziario (ricordate la Grecia?), e lo sta facendo adesso con il rifiuto di accondiscendere al tetto sul prezzo del gas per lenire i disagi e le speculazioni finanziarie dovute all’innalzamento dei costi legati alla guerra in Ucraina. Alla prima occasione, insomma, Berlino torna a guardare il proprio ombelico, senza curarsi di fare squadra con il resto dell’Unione.

Ed eccoci all’oggi, quando lo stesso Scholz che ha scommesso sulla Nato e sul riarmo, è pronto anche a giocare anche su un altro tavolo, dimenticando però che – come già la Russia – anche la Cina sarà sotto sanzioni economiche, quando Pechino deciderà (e lo farà presto, secondo quanto prevede l’agenda del presidente cinese Xi Jinping) di invadere Taiwan. Dunque, in questo caso repetita non iuvant. La «sindrome di Berlino» sembra aver contagiato anche Scholz, il quale forse teme così tanto per la tenuta dell’economia nazionale da svendere i «gioielli di famiglia» al primo offerente.

Vale qui la pena ricordare come il porto di Amburgo – noto anche come la «porta sul mondo della Germania» - sia il primo per importanza della Repubblica Federale e il secondo più grande d’Europa dopo Rotterdam. Lo scalo marittimo della città anseatica nei primi nove mesi di quest’anno ha movimentato qualcosa come 95,8 milioni di tonnellate di merci via mare, grazie anche alla movimentazione di container con la Cina (non a caso, il principale partner di Amburgo) seguito dagli Stati Uniti, Svezia, Polonia e Brasile. Amburgo ha inoltre investito ed esteso in modo impressionante la movimentazione di merci su ferrovia, qualificandosi in cima alle classifiche mondiali. Ed è inoltre il principale hub tedesco per l’esportazione di armi. Il che la dice lunga sull’opportunità di lasciare in mano a una compagnia cinese – dunque, proprietà dello Stato – per quanto munifica un settore così delicato per la sicurezza nazionale.

«Sul possibile ingresso dei cinesi ad Amburgo nulla è deciso, restano molte questioni da chiarire» ha tentato di smorzare Olaf Scholz, dopo che l’ipotesi di accordo sino-tedesco ha provocato critiche bipartisan. Sei ministeri del governo si sarebbero opposti: su tutti, quello dell’Economia e degli Esteri, dove i verdi mantengono la leadership. Fin troppo chiara Marie-Agnes Strack-Zimmermann, responsabile della Difesa per liberali e portavoce di un disagio diffuso in tutto il Bundestag: «Cosa deve accadere nel mondo perché la Germania smetta di inchinarsi ai nemici del mondo libero e democratico? Vendere infrastrutture critiche alla Cina è un errore clamoroso. Chi consiglia il cancelliere?».

Persino la Commissione europea sarebbe irritata. Se infatti il cancelliere Olaf Scholz, consentirà alla compagnia cinese Cosco di acquisire una quota significativa del settore container del porto, questo sarebbe il coronamento della strategia portuale cinese che, dopo il Pireo e Trieste, sbarca anche nel Nord Europa. Cui prodest? In definitiva, forse neanche a Berlino.

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Luciano Tirinnanzi