Donald Trump spacciato? Presto per dirlo
(Ansa)
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Donald Trump spacciato? Presto per dirlo

I sondaggi danno il Presidente USa molto lontano dal rivale, Joe Biden. Ma le carte in tavola potrebbero cambiare, in fretta

Donald Trump è spacciato? I sondaggi della Cnn lo danno indietro di ben 14 punti, appare sempre più accerchiato politicamente, mentre il caos imperversa negli Stati Uniti. La dimostrazione plastica di questo stato di cose parrebbe essere data dal caso di Seattle, dove ormai da oltre una settimana – a seguito delle proteste per la morte di George Floyd – dei manifestanti hanno occupato un'area nel centro cittadino (la Capitol Hill Autonomous Zone): una sorta di comune senza polizia, tra barricate, intenti più o meno utopistici e il timore che qualche dimostrante possa circolare armato. Insomma, tanto potrebbe bastare per dichiarare chiusa la partita elettorale e prepararsi quindi a un'inevitabile vittoria dei democratici il prossimo novembre. Eppure, forse, la situazione è un po' più complessa di come appare. E, nonostante le oggettive difficoltà che il presidente si sta trovando ad affrontare, l'esito della campagna elettorale potrebbe essere meno scontato di quanto sembri.

Innanzitutto è bene fare attenzione al valore dei sondaggi. Non solo banalmente è troppo presto, ma – come abbiamo già avuto modo di vedere alle presidenziali di quattro anni fa – non è che le rilevazioni si siano mai mostrate granché capaci di intercettare realmente l'elettore trumpista. Tutto questo, senza dimenticare il precedente del 2004, quando il democratico John Kerry contese la Casa Bianca al presidente repubblicano George W. Bush. Per tutta l'estate di quell'anno i sondaggi diedero Kerry stabilmente in vantaggio, eppure – alla fine – fu Bush a prevalere. Ciononostante, al di là dei precedenti storici, si registrano fattori più profondi e specifici che ci mostrano come Trump sia ancora ben lungi dal potersi dire fuori gioco. E la questione delle forze dell'ordine sta lì a dimostrarlo.

La morte di Floyd ha aperto un serrato dibattito politico sul destino delle forze di polizia negli Stati Uniti. Un dibattito che ha già determinato evidenti ripercussioni sul fronte elettorale. A livello generale, tutti gli schieramenti politici in campo sono concordi su un punto: la necessità di riformare la polizia. Un processo in cui, al di là del Congresso, dovranno però intervenire soprattutto i sindaci, sotto la cui autorità ricade la responsabilità di nominare il capo della polizia cittadina. Al Campidoglio, già infuria lo scontro politico, con repubblicani e democratici che non sembrano troppo concordi sulle misure da adottare. In particolare, al momento la questione maggiormente divisiva riguarda lo scudo di cui gli agenti godono per evitare di incorrere di azioni legali: se i democratici sono intenzionati a rimuoverlo (ritenendolo fonte di abusi), i repubblicani tendono invece a difenderlo (temendo che una sua abolizione indebolirebbe eccessivamente le forze di polizia).

La via riformista non è comunque l'unica sul tavolo. Soprattutto da parte degli attivisti di Black Lives Matter e delle aree di sinistra dell'asinello si invocano delle misure ben più drastiche. Alcuni chiedono, per esempio, un taglio dei finanziamenti alle forze dell'ordine: una proposta che ha registrato la ferma opposizione del fronte repubblicano, ma che ha invece già prodotto spaccature tra i democratici. Gli esponenti centristi dell'asinello non ne vogliono sapere, mentre a sinistra c'è chi si è mostrato aperturista. Per il momento, la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha evitato di prendere una posizione chiara sulla questione, temendo un'ulteriore spaccatura tra le file del proprio partito. Tutto questo, mentre il candidato democratico in pectore alla Casa Bianca Joe Biden – dopo giorni di tentennamento – ha alla fine deciso di schierarsi contro la proposta. Il suo problema tuttavia è che non solo – come detto – ha un partito diviso sulla questione. Ma che anche, negli scorsi giorni, si è ritrovato per così dire sconfessato da alcuni dei più importanti primi cittadini del Partito Democratico: il sindaco di New York, Bill de Blasio, e quello di Los Angeles, Eric Garcetti, hanno infatti tagliato il budget riservato alla propria polizia cittadina, dirottando i soldi su altri capitoli di spesa.

E non è neanche finita qui. Perché alcuni attivisti di Black Lives Matter non si limitano a chiedere il taglio dei fondi, ma spingono addirittura per lo smantellamento dei dipartimenti di polizia. E' quanto per esempio si sta facendo a Minneapolis (dove Floyd è rimasto ucciso), con la benedizione della deputata democratica (vicina a Bernie Sanders), Ilhan Omar. Certo: non sarebbe la prima volta negli Stati Uniti che un dipartimento di polizia viene sciolto. E' già accaduto, per esempio, a Camden (in New Jersey) nel 2012. Il punto è che, quando vengono smantellati, i dipartimenti sono poi solitamente ricostituiti (ancorché con cambiamenti e riforme più o meno significative). Nel caso di Minneapolis non è invece ancora chiaro a che cosa stia effettivamente puntando il consiglio cittadino. Senza infine dimenticare che c'è chi – ancora più a sinistra – si è addirittura spinto a invocare l'abolizione della polizia tout court. La stessa comune di Seattle punta, in un certo senso, a questo obiettivo.

E' chiaro che questa situazione risulti maggiormente problematica proprio per Biden. La linea securitaria di Trump potrà anche non piacere, ma ha comunque una propria coerenza, visto che – dall'inizio dei disordini – l'inquilino della Casa Bianca la sta portando avanti con consequenzialità. L'ex vicepresidente, invece, riscontra delle difficoltà, a causa del suo elettorato potenziale: un bacino che va dai democratici centristi a quelli radicali. E' evidente che, con una tale eterogeneità, Biden – nel momento in cui prenda posizioni troppo nette – rischi defezioni o a destra o a sinistra. Per tale ragione, il candidato democratico ha atteso svariati giorni prima di schierarsi contro il taglio dei fondi alla polizia, mentre – per riequilibrare – si è detto favorevole a ribattezzare le basi militari che portano nomi di generali confederati. Tutto questo, mentre la sua posizione sulla comune di Seattle non è ancora pervenuta.

Ecco: è esattamente un tale atteggiamento che, alle lunghe, rischia di danneggiare l'ex vicepresidente. Un atteggiamento che potrebbe non a caso presentarlo come un candidato costantemente fermo in mezzo al guado, col risultato di scontentare svariate aree elettorali del suo partito. E, in questo senso, proprio la questione di Seattle potrebbe seriamente azzopparlo. Non dimentichiamo che il sindaco della città, Jenny Anne Durkan, e il governatore dello Stato di Washington, Jay Inslee, appartengano al Partito Democratico. E che entrambi si siano mostrati favorevoli alla linea morbida sull'occupazione di Seattle. Senza poi dimenticare il paradosso principale: ricordando sempre che sono i primi cittadini a nominare i capi della polizia, va infatti sottolineato che è dal 1990 che Seattle ha ininterrottamente sindaci democratici. Ragion per cui non solo le controversie che da anni accompagnano le locali forze dell'ordine non possono essere imputate a Trump e ai repubblicani, ma – più nello specifico – la stessa Capitol Hill Autonomous Zone è diretta contro una situazione di cui è l'asinello il principale responsabile. Uno stato di cose che potrebbe quindi imbarazzare Biden, alienandogli inoltre indirettamente il sostegno di non poche frange moderate. D'altronde, da settimane, la strategia di Trump nell'attaccare il rivale è chiara: lo scopo del presidente non è infatti tanto quello di dipingere Biden stesso come un candidato di sinistra radicale, quanto – semmai – di presentarlo come un candidato ostaggio della sinistra radicale. L'obiettivo del presidente è quindi quello di appellarsi al bisogno di sicurezza dell'elettore medio, additando il rivale come una figura eterodiretta da frange estremiste.

Del resto, che l'elettorato americano non sembri granché ben disposto verso il taglio dei finanziamenti alla polizia, è un dato oggettivo. Secondo un sondaggio Ipsos, il 64% dei cittadini statunitensi si oppone alla diminuzione dei fondi. Un quadro fotografato anche da una rilevazione YouGov, secondo cui appena il 27% si direbbe favorevole all'idea. Insomma, a fronte di questi dati, non è del tutto infondato ritenere che la linea "law and order" di Trump possa alla fine risultare vincente. Soprattutto alla luce degli oggettivi ostacoli che Biden deve affrontare: un candidato non solo troppo amletico, ma che si ritrova ad avere a che fare con una classe dirigente locale – quella democratica – che si sta sempre più spostando a sinistra (come dimostrano i suddetti casi di de Blasio, Garcetti, la Durkan e Inslee). Un candidato che, tra l'altro, si ritrova a dover fare i conti con un elettorato sempre più polarizzato e che riscontra quindi crescenti difficoltà a tenere compatto l'intero asinello.

E attenzione: perché – tornando a Trump – non si tratta solo di una linea politica potenzialmente più efficace, ma anche di un'interessante dinamica elettorale. L'attuale presidente ha sempre mostrato una leadership di natura "reattiva": non è nei periodi di bonaccia politica, ma in quelli di pressione e accerchiamento che Trump è sempre riuscito a emergere. Il tutto, condito da un potente messaggio antisistema. Qualcuno trova paradossale che un presidente in carica possa condurre una campagna elettorale in chiave antiestablishment. Ma non è così. Perché la storia insegna come non sia automatico che un presidente statunitense venga necessariamente assorbito dall'establishment. Assorbiti ne furono – per esempio – Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama. Non invece Richard Nixon, di cui – guarda caso – in questo 2020 Trump sta cercando di imitare le strategie elettorali. Come Hillary Clinton nel 2016, stavolta è Biden il candidato del sistema (visti suoi storici legami con i corridoi di Wall Street e del Campidoglio). Il presidente lo sa. Ed è partito all'attacco, cercando di coniugare – come fece Nixon – la lotta ai potentati di Washington con la salvaguardia dell'ordine. Perché il "modello Trump", il modello cioè del tutore della legge con la Bibbia in mano, potrà anche non piacere. Ma l'alternativa è il "modello Seattle". E questo, a novembre, potrebbe fare la differenza. Il presidente per ora resta in una situazione di difficoltà, sia chiaro. Ma prima di darlo per spacciato, per favore, andiamoci piano.

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Stefano Graziosi