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(Ansa)
Dal Mondo

Le mani della Cina sull'Afghanistan, ed il suo litio

La caccia alle materie prime ormai è mondiale

Non si fermano le attività della Repubblica Popolare cinese alla continua ricerca dei minerali che alimentano tutto, dai laptop alle auto elettriche passando per gli smartphone e i pannelli solari e che servono alla cosiddetta transizione energetica. L'ultima mossa cinese riguarda le ricche vene di litio dell'Afghanistan che sono al centro dell’accordo siglato tra il ministero delle Miniere e del Petrolio dei Talebani e la società cinese Gochin, che ha espresso la volontà di investire 10 miliardi di dollari nei depositi di litio dell'Afghanistan.

Il ministro per le Miniere e il Petrolio, Shahabuddin Delawar, secondo il ministero, ha incontrato i rappresentanti di Gochin a Kabul. Secondo quanto affermato dal ministro l'investimento cinese creerebbe 120.000 posti di lavoro diretti e un milione di posti di lavoro indiretti nel Paese. Come parte dell'investimento l’azienda cinese riparerà il Passo Salang in sette mesi, scaverà un altro tunnel e trasformerà il litio estratto all'interno dell'Afghanistan. Dal ritorno al potere dei Talebani la Cina ha ampliato i suoi legami economici con gli Studenti del Corano, con società cinesi che offrono investimenti in Afghanistan. Nel gennaio 2023, la Xinjiang Central Asia Petroleum and Gas Co ha firmato un accordo da 540 milioni di dollari per estrarre petrolio dal bacino dell'Amu Darya, nel nord dell'Afghanistan. Secondo Bloomberg , le compagnie minerarie cinesi aspirano da tempo ad accedere ai grandi giacimenti di litio dell'Afghanistan, che si stima valgano 1 trilione di dollari.

L'Afghanistan è almeno in apparenza una sorta di El Dorado, con ricchezze minerarie che valgono almeno 1 trilione di dollari. Ma c'è un alto grado di incertezza per quanto riguarda l'indagine geologica delle riserve di litio del Paese. Lo sviluppo commerciale richiederebbe in primo luogo un enorme investimento in un programma di indagine e di esplorazione. Gran parte delle informazioni geologiche esistenti risalgono all'epoca sovietica e potrebbe essere una sopravvalutazione delle reali riserve esistenti. Anche gli Stati Uniti hanno ottenuto risultati di alto livello nella mappatura delle aree mineralizzate in Afghanistan durante l'occupazione statunitense, ma rimane incertezza sull'entità delle probabili riserve. Inoltre, sarebbe probabilmente impegnativo dal punto di vista logistico, dispendioso in termini di tempo e costoso estrarre ed esportare prodotti dall'Afghanistan, un Paese senza sbocco sul mare con infrastrutture di trasporto e di alimentazione limitate. La produzione commerciale richiederebbe probabilmente almeno 15 anni per raggiungere, come stima ottimistica, ma potrebbe richiedere più tempo. E poi c'è la questione della sicurezza, un problema che ha afflitto l'Afghanistan negli ultimi decenni, o secoli, e che ha spaventato i cinesi che hanno sospeso il loro grande progetto sul rame.

I Talebani controllano sempre meno territorio, mentre l’Isis-K, la branca locale dello Stato islamico, sta prendendo sempre più campo soprattutto al confine col Pakistan. Intanto la situazione umanitaria è sempre più deteriorata, con fame, carestie, mancanza di denaro nell’economia reale. Anche se l'attività mineraria dovesse continuare senza spargimenti di sangue, chi firmerebbe i contratti? Pochi riconoscono il Governo talebano e una fetta del gabinetto è soggetta a sanzioni internazionali per terrorismo. L'incertezza legale e normativa rende tutto più difficile. I cinesi che non fanno certo beneficenza e che non vogliono infilarsi nel ginepraio afghano dal quale è impossibile uscire (russi e americani lo sanno bene), molto probabilmente non daranno seguito a quanto pattuito. Javed Noorani, esperto del settore minerario afghano, intervistato da Foreign Policy, autorevole rivista statunitense dedicata alle relazioni Internazionali, ritiene che «i cinesi, nella migliore delle ipotesi, otterranno il contratto e si siederanno su di esso per mantenere il controllo della fornitura e dei prezzi del litio. La Cina ha già esteso i tentacoli della sua Belt and Road Initiative (BRI) fino al vicino Pakistan, rendendolo il fulcro di un'orgia infrastrutturale in tutta l'Asia centrale e meridionale. L'Afghanistan potrebbe essere il prossimo. Estenderanno la loro BRI attraverso l'Afghanistan, il che metterà seriamente in pericolo qualsiasi regime di Kabul una volta integrato». La Nuova Via della Seta è fondamentale per la politica estera cinese. Annunciata nel 2013, vuole di collegare l'Asia con l'Europa e l'Africa, via terra e oltremare. Fino alla caduta della repubblica nell'agosto 2021, l'Afghanistan non era stato inserito nella BRI in modo significativo. Il fiore all'occhiello di Pechino è stato il Pakistan, dove i governi che si sono succeduti hanno ottenuto alcune autostrade e centrali elettriche e si sono sempre più indebitati con la Cina mentre il Paese è ormai prossimo bancarotta. L'anno scorso il Paese è stato colpito da inondazioni devastanti che sono costate danni stimati in almeno 30 miliardi di dollari e perdita di produzione. Da allora la guerra in Ucraina, che ha fatto impennare i prezzi del cibo e del carburante, così come anni di cattiva gestione economica interna e a dilagante corruzione, hanno paralizzato l'economia del Pakistan. Al 10 febbraio 2023 le riserve estere erano scese a poco più di 3 miliardi di dollari che erano appena sufficienti a coprire tre settimane di importazioni. Nel febbraio scorso la Cina ha accettato di prestare al Pakistan (che è una potenza nucleare) altri 700 milioni di dollari per aiutarlo a superare la peggiore crisi economica della sua storia e si tratta di un fatto che preoccupa i Paesi occidentali visto l'onere del debito di Islamabad nei confronti di Pechino. Il prestito si aggiunge ai 30 miliardi di dollari che il Pakistan deve già alla Cina e alle banche commerciali cinesi. La notizia del prestito della China Development Bank, di proprietà statale, è arrivata il giorno dopo che l'Assemblea nazionale del Pakistan ha approvato all'unanimità un disegno di legge per aumentare le entrate fiscali. Il Fondo monetario internazionale ha affermato che il Pakistan deve rispettare determinati requisiti, come l'aumento delle tasse e la garanzia di finanziamenti esterni, se vuole sbloccare 1,1 miliardi di dollari (fondi di salvataggio) che sono parte di un pacchetto di 6 miliardi di dollari concordato nel 2019. Javed Noorani vede profilarsi lo stesso scenario per l'Afghanistan che «si indebiterà allo stesso modo con la Cina, che spesso subordina i prestiti all'accesso senza offerte, alle operazioni di monopolio e ai prezzi elevati garantiti. Come ogni scommettitore sa, che le condizioni del prestito possono cambiare quando il rimborso incombe, soprattutto se in ritardo. Si inizia dalla parte debole, con le infrastrutture di cui ogni paese ha bisogno. E poi si insinua nelle arterie dello stato, in particolare nell'economia, ed è lì che inizia il controllo».

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Stefano Piazza