Taiwan
(Ansa)
Dal Mondo

Biden deve fermare la Cina prima di Taiwan ma non ci sarà la guerra

Ragioni geopolitiche ed economiche hanno costretto il Presidente Usa ai toni forti di ieri; ma a tutto c'è un limite e lo sanno anche alla Casa Bianca

«Non volevate essere coinvolti militarmente nel conflitto in Ucraina per ovvi motivi. Ma siete disposti a farvi coinvolgere militarmente per difendere Taiwan, se si dovesse arrivare a questo?». Quando è stata fatta questa domanda al presidente degli Stati Uniti, «Sì. Questo è l'impegno che abbiamo preso», è stata la risposta secca di Joe Biden. Il quale ha poi aggiunto: «Siamo d'accordo con la politica di “una sola Cina”. L'abbiamo firmata così come tutti i relativi accordi, ma l'idea che [Taiwan] possa essere presa con la forza, solo presa con la forza, è semplicemente non appropriata».

Questo commento, apparentemente esplosivo, non è che l’ultimo di una serie di affermazioni sulla difesa a spada tratta da parte dell’Amministrazione Usa nei confronti della non riconosciuta Repubblica di Cina. Altrimenti detta Formosa, altrimenti detta Taipei o ancor meglio Taiwan. Insomma, tutto tranne che Repubblica Popolare di Cina, come il regime di Pechino vorrebbe invece fosse chiamato quel lembo di terra, sbianchettato da qualsiasi distinzione formale, amministrativa o geografica.

Il partito unico comunista ha infatti previsto da programma quinquennale la ri-annessione dell’isola «ribelle» alla Cina continentale entro il 2025. Un rientro nella «madrepatria» che la democratica Taipei tuttavia non gradisce affatto, ben conscia del piano di rimozione coatta che già oggi agita non poco le acque del Mar Cinese, dove non a caso da tre anni a questa parte sono notevolmente aumentate tanto le manovre della marina cinese quanto i sempre più minacciosi sorvoli dello spazio aereo di Formosa da parte di Pechino.

Pronti a forzare la mano, i comunisti cinesi accampano il diritto su questa terra in ragione tanto della storia millenaria del Celeste impero quanto del diritto internazionale: non riconosciuta né da Pechino (ovvero la Cina propriamente detta) né dagli altri quattro membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu (Usa, Russia, Regno Unito e Francia), e nemmeno dall'Unione europea, Taiwan può vantare con questi Paesi giusto rapporti diplomatici che intrattiene grazie ai suoi uffici consolari di rappresentanza all’estero (al dicembre 2021, Taiwan è riconosciuta soltanto dal Vaticano e da altri 13 Stati nel mondo), ma anche una fattiva collaborazione incentrata sui commerci.

La ribelle Taiwan oggi è nota al mondo soprattutto per la produzione di microchip, di cui copre qualcosa come il 70% del mercato globale, ed è perciò strategica per lo sviluppo di ogni più avanzata tecnologia nota al mondo: dagli smartphone ai satelliti, dai computer all’automotive. Inoltre, per lo stretto omonimo di Taiwan passano inevitabilmente le merci che la Cina destina al mercato europeo, africano e Mediterraneo. Ed è soprattutto per questa ragione strategica che Pechino vuole rompere l’ambiguità e lo status incerto dell’isola.

Per nessuna ragione al mondo, quell’area deve diventare un collo di bottiglia passando o restando, a seconda dei punti di vista, in mani straniere e ostili: un eventuale blocco dello stretto da parte americana, tanto per dire, provocherebbe un danno sostanziale agli scambi commerciali che il gigante asiatico intesse con il resto del mondo. Il che minerebbe l’essenza stessa della Cina quale fabbrica del mondo e leader della movimentazione di merci.

D’altra parte, è proprio in ragione di ciò che gli Stati Uniti forniscono armi difensive a Taiwan: un piccolo deterrente all’espansionismo pechinese, anche se Washington è finora rimasta intenzionalmente ambigua circa l'opportunità di un intervento militare in difesa di Taiwan in caso subisse un attacco. Gli addetti ai lavori la chiamano esplicitamente «dottrina dell’ambiguità strategica».

Eppure stavolta l’avvertimento di Biden è parso sin troppo chiaro. Peraltro, il suo messaggio è stato non solo voluto (Biden è noto per le gaffe, ma non è questo il caso), ma anche studiato e recapitato proprio in occasione del suo primo viaggio in Asia come presidente, una visita ufficiale che la Casa Bianca ha voluto per ricucire con alleati e partner asiatici al fine di contrastare la crescente influenza della Cina nel Pacifico.

La frase sulla difesa di Taiwan alle porte della Cina arriva così alla vigilia della partecipazione del presidente Usa al secondo vertice del Quadrilateral Security Dialogue (Quad): un gruppo informale tra Stati Uniti, Giappone, Australia e India, la cui sola esistenza basta a irritare e allarmare Pechino. In poche ore, infatti, la Cina ha replicato a Biden, rimarcando la sua «forte insoddisfazione e ferma opposizione» ai commenti del presidente Usa, e ribadendo che non permetterà a nessuna forza esterna di interferire nei suoi «affari interni».

Se c’è chi pensa che questa sia la replica di quanto osservato in Ucraina, dove cioè uno Stato aggredito militarmente ha ottenuto la solidarietà e l’aiuto del «poliziotto del mondo» americano, non va però dimenticato che un’eventuale difesa militare di Taiwan comporterebbe uno sforzo bellico ben diverso e infinitamente maggiore, dove Marina e Aviazione (ossia i fiori all’occhiello della macchina bellica americana) sarebbero impegnati in prima linea contro una superpotenza come la Cina, nonostante la forza di quest’ultima sia ancora incerta e tutta da dimostrare: sebbene vanti numeri da capogiro, Pechino non è abituata alla guerra.

Sia come sia, il pallino del gioco oggi è in mano al presidente cinese Xi Jinping. il Congresso comunista si appresta quest’anno a incoronarlo fino al 2027, quando scadrà il suo mandato come segretario generale del partito. Quello è il termine ultimo per Xi per essere ricordato dalla storia come il «grande riunificatore» delle due Cine, e metter fine alla traumatica separazione del 1949, quando la fazione nazionalista di Chiang Kai-Shek sconfitta si ritirò sull'isola di Formosa per dar vita al vulnus che oggi ha nome Repubblica di Cina a Taiwan.

L’esempio di Putin basterà a frenare Xi? E in caso contrario, l’America vorrà davvero ingaggiare uno «scontro finale» con il nuovo grande nemico cinese? L’anno decisivo potrebbe essere il 2024, quando l’America si troverà a scegliere il nuovo inquilino della Casa Bianca. Nel passaggio di potere, ritengono a Pechino, Washington potrebbe trovare il fianco scoperto nell’affrontare un’eventuale aggressione-lampo, così come potrebbe essere costretto da Pechino a fare di questa sfida l’argomento clou della campagna elettorale.

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Luciano Tirinnanzi