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Bambini nativi in un collegio canadese in British Columbia intorno al 1910 (Getty Images).
Dal Mondo

«I bambini indiani morti in Canada per un tentativo di assimilazione fallito»

Il massimo storico italiano del Paese Nord-americano spiega perché i cadaveri dei ragazzini trovati in alcuni collegi cattolici non rappresentano un genocidio. «Fu un esperimento di ingegneria sociale andato male» spiega il professore.

Il ritrovamento di centinaia di corpi, probabilmente di bambini e adolescenti, sepolti senza alcuna indicazione di nome o di data nei terreni di alcuni collegi gestiti da istitituzioni cattoliche nell'Ovest del Canada, ha portato il Paese sulla scena mediatica del mondo insieme alla Chiesa cattolica, entrambi immediatamente accusati di genocidio (cioé di distruzione violenta di una razza in quanto tale) e di sospettata pedofilia consapevole e organizzata.

I recentissimi incendi dolosi di alcune chiese cattoliche nell'Ovest del paese danno un'idea del sentimento di rabbia indiscriminata per lungo tempo covata dalle popolazioni indigene e del senso di colpa di coloro che, pur non indigeni, si ritengono corresponsabili di passati crimini commessi dai loro padri.

Quei morti sono un innegabile dato di fatto. Quando siano morti, che nome ed età avessero, da quale nazione indigena provenissero, se fossero morti di malattia o avessero subito violenze che avrebbero provocato la morte, questo ancora non si sa. La ricerca della verità richiede che si faccia luce su queste ipotesi e che, se venissero riconosciute responsabilità individuali da parte degli istitutori, o di coloro che ne hanno coperto le azioni criminose, questi vengano indicati con nome e cognome e, se ancora in vita, vengano perseguiti dalla legge.

Detto questo, è anche innegabile che casi di violenze e abusi di vario genere perpetrati in collegi tenuti da religiosi e religiose appartenenti alla Chiesa cattolica sono da tempo cosa nota e sono stati denunciati in Irlanda, a Terranova, in Australia, e negli Stati Uniti. Questi abusi non sono però sempre stati legati a questioni razziali, come i recenti casi dei collegi di Kamloops (British Columbia) e Marieval (Saskatchewan) sembrerebbero indicare. In Irlanda istitutori e studenti erano tutti bianchi e anglofoni, e cosi pure a Terranova.

Gli ambienti collegiali sono, come si sa, terreno fertile per queste attività criminose. Per esempio, neanche i più accesi fautori delle public school inglesi negano che vi si perpetrassero ogni genere di abusi. Eppure si trattava di luoghi di formazione delle élite, non di luoghi di vessazione di razze ritenute inferiori.

Nello specifico, i collegi canadesi erano stati creati fin da metà Ottocento per due fondamentali motivi. Primo, salvare le anime dei giovani studenti indigeni e non lasciarli preda del paganesimo, cosi da garantire loro la salvezza nell'altro mondo. Secondo, consentire loro un inserimento nel mondo del lavoro attraverso l'assimilazione alla società occidentale, che si riteneva più progredita anche dal punto di vista materiale (qualità della vita. cure mediche, scolarizzazione).

Soprattutto nelle terre dell'Ovest e del Nord, dove le distanze erano immense e gli scarsi insediamenti indiani e inuit erano sparpagliati in piccole comunità lontane, si riteneva necessario utilizzare i collegi come centri di raccolta per centralizzare i servizi sia di ordine spirituale (battesimi, catechismo, prime comunioni, cresime, estrema unzione), sia di ordine materiale (nutrimento regolare, medicine, istruzione). Tali servizi erano visti come complementari. Alle Chiese, ma soprattutto a quella cattolica e ai suoi ordini regolari, lo Stato federale canadese affidava mansioni che da solo non sarebbe stato in grado di svolgere.

I genitori indiani venivano dunque invitati a mandare i propri figli in quei collegi e molti accettavano nella speranza che potesse garantire loro un futuro migliore. Indubbiamente molti bambini furono obbligati a partire, molte famiglie vennero forzate a separarsi dai propri figli e il quadro della società di accogliernza veniva idealizzato oltremisura se non proprio nascosto. Va da sé anche che pochissimi di questi bambini tornarono a casa, e coloro che riuscirono a inserirsi nella società occidentale lo fecero ai livelli più bassi. Inoltre, molti di questi bambini non sopravvivevano allo choc biologico e psicologico dello sradicamento, da cui le moltissime morti anzitempo.

A partire dal 1876, e fino alla metà nel Novecento (Marieval venne chiusa nel 1997), il governo federale rese obbligatorio per le famiglia indigene l'invio dei propri figli nelle cosiddette «scuole residenziali», finanziate dal Ministero federale per gli Affari Indiani e gestite dalle chiese cristiane. È soprattutto su tale sistema che si è fatto riferimento negli ultimi vent'anni per criticare la politica governativa di assimilazione e la gestione autoritaria delle chiese cristiane, soprattutto di quella cattolica.

Al di là degli abusi e delle forzature, vi era anche un senso di superiorità da parte della società bianca nei confronti delle società indigene. Ma, nella pratica, il vero problema fu il progetto di ingegneria sociale che stava alla base di tali comportamenti e che nulla aveva a che vedere con problemi di razza. Per non fare che un esempio, a Terranova, isola enorme, difficile e dal pessimo clima, la gente viveva in piccolissime comunità di pescatori sparpagliate lungo le coste, comunità praticamente irragiungibili in caso di necessità.

Per favorire la distribuzione dei servizi (che oggi chiamaremmo welfare), ancora negli anni Cinquanta molte di queste piccole comunità vennero trasferite a forza in centri di raccolta, dove sarebbero stati forniti tutti i servizi fondamentali in maniera centralizzata. Qui non si trattava di indiani o di inuit, ma di pescatori bianchi e anglofoni. Il risultato fu un disastro psicologico e sociale, tanto quanto quello dei collegi per gli indiani dell'Ovest. Lo stesso fenomeno ebbe luogo in Australia, con gli stessi effetti sugli aborigeni australiani

Sempre nell'ambito degli esperimenti falliti, andando un po' indietro nel tempo, è eclatante il caso del Collegio Urbano di Propaganda Fide di Roma, che accoglieva gli studenti più bravi da tutto il mondo non cattolico per prepararli al reinserimento nella loro società di origine in qualità di missionari. Gli indiani di Canada e Stati Uniti vi cominciarono ad arrivare fin dal 1832, ma sia per loro sia per i loro compagni bianchi -- che provenivano dagli stessi luoghi -- la percentuale di morti rispetto alle ammissioni fu altissima. Certamente non si deve parlare di genocidio, ma piuttosto di incapacità se non di impossibilità di gestire processi di assimilazione.

Per tornare ai morti di Kamloops e di Marieval, questa voga ormai invalsa di colpevolezza universale che giudica negativamente tutto quello che è di origine europea, con il sovrappiù del cattolicesimo, impedisce di comprendere la complessità e di conoscere i protagonisti di quanto è accaduto. Ma lo storico sa bene che la ricerca della verità è altra cosa rispetto al voler riscrivere la storia «come avremmo voluto che fosse», naturalmente con i criteri morali che appartengono ad altre epoche. Esistono gli archivi, i libri, le testimonianze. le fonti: su di quello si devono basare le analisi del passato.

Colpisce soprattutto che nel revanchismo degli indiani di oggi, che giustamente piangono i loro morti, sia però tornato fuori quel concetto di razza che la società occidentale credeva di avere sepolto dopo il genocidio ebraico della Seconda Guerra Mondiale. Da una parte, i bianchi (come razza unica) vengono accusati di razzismo, passato e presente, nei confronti degli indiani. Dall'altra, gli indiani sono i primi a porsi come razza diversa. «We are a proud people» ho recentemente sentito dire da un leader indiano a proposito dei morti di Marieval («Noi siamo un popolo fiero»). Chiamatelo popolo, o nazione, o etnia, o razza, il concetto è sempre lo stesso: la diversità -- e intrinseca superiorità -- di una comunità rispetto agli altri, al di là del concetto di individuo che conta per quel che è e non perché gli è capitato di nascere in un gruppo.

Quando il primo ministro Justin Trudeau, con abile mossa politica, si è scusato con gli indiani del passato criminale del Canada, ha privilegiato appunto l'appartenenza a una comunità rispetto alle responsabilità individuali. È peraltro una strada già intrapresa da suo padre, Pierre Elliott Trudeau, il primo ministro che ne aveva fatto un caposaldo della Costituzione e della Carta dei Diritti e delle Libertà del 1982. Lo aveva già fatto il primo ministro conservatore Stephen Harper prima di lui.

È lo stesso spirito con cui agisce la Commissione per la Verità e Riconciliazione, creata nel 2008 per descrivere e definire in qual modo la popolazione indigena abbia sofferto, nei secoli, a causa della presenza europea nei suoi cosiddetti territori ancestrali. Sugli intenti, naturalmente, non possiamo che essere d'accordo. Ma se questo porta a un altro esempio di ingegneria sociale, ammantato di ideologia benpensante, non possiamo che temerne gli effetti negativi di offuscamento della verità.

A differenza di Trudeau, Papa Francesco, pur avendo annunciato un incontro con i leader nativi canadesi, non si è formalmente scusato. Vista la sua nota simpatia per le nazioni indigene e la sua posizione verso i numerosi casi di pedofilia all'interno del clero, probabilmente Bergoglio è stato tentato di scusarsi. Ma non l'ha fatto, per non formalizzare un atto di accusa collettivo contro la Chiesa cattolica universale in quanto tale. Da una parte, immaginiamo, c'è l'idea cattolica che ognuno è responsabile di se stesso e che la salvezza dell'anima è un fatto individuale. Dall'altro lato, c'è anche il desiderio di accettare la complessità della storia, per cui la storia della Chiesa non è fatta soltanto di santi e martiri da una parte e di pedofili e violentatori dall'altra. Oggi come ieri.

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Luca Codignola