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Centri di rimpatrio, ricettacolo di violenza e di ogni reato

Dovrebbe essercene uno in ogni regione. Al momento sono solo 6. Dove si spaccia alla luce del sole e prospera la criminalità

Imam pro-Isis che propagandavano la guerra santa, spacciatori, ex scafisti, stupratori o semplici clandestini. Nei Centri per il rimpatrio (Cpr) c’è spesso il peggio dell’immigrazione e, nonostante le misure di sicurezza alte e in alcuni casi le strutture sembrino dei campi di prigionia, all’interno accade di tutto: dalle aggressioni sessuali al traffico di droga. E poi ci sono i mediatori culturali che si scoprono pusher, le rivolte da sedare, le proteste per il vitto non gradito che culminano in tentativi di incendio e le evasioni rocambolesche.

Mentre il Viminale accelera sul fronte dei rimpatri lavorando per stringere accordi con i Paesi di provenienza degli immigrati da espellere, le strutture scoppiano. Il Decreto sicurezza prevede che ci sia un Cpr per ogni regione. Ma al momento sono sei: Bari (riaperto a novembre 2017), Brindisi (attivo dal 2015), Caltanissetta (chiuso a fine 2017 dopo una rivolta e riaperto a dicembre 2018), Roma (l’intero settore maschile è rimasto fuori uso per mesi), Palazzo San Gervasio (dov’è stata adattata una struttura confiscata alla mafia), Torino (il centro più grande d’Italia e anche il più complicato da gestire), Trapani (per un periodo è stato hotspot). A breve è prevista l’apertura di quattro nuovi centri: a Gradisca d’Isonzo, Macomer (in Sardegna), Milano e Modena. È già previsto l’ampliamento del Cpr di Caltanissetta, quello di Torino passerà da 175 a 210 posti entro fine anno, quello di Roma subirà adeguamenti nell’area maschile, quello di Bari passerà da 90 a 126 posti. In Calabria si sta pensando a un ex campo base a Mormanno, in provincia di Cosenza, usato per la costruzione della Salerno-Reggio Calabria.

Tra i 100 e i 150 posti, invece, potrebbero essere recuperati a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, dove si sta lavorando per ripristinare un’ex caserma in passato utilizzata per la prima emergenza dal Nord Africa.

Le strutture, poi, sono costantemente sotto manutenzione. «E ogni sforzo compiuto, con significativi oneri», sottolinea Gerarda Pantalone, capo del Dipartimento immigrazione, «viene spesso vanificato dai continui e violenti comportamenti degli ospiti in danno dei locali e degli arredi, con dirette negative conseguenze sulle loro stesse condizioni di vita». I danneggiamenti sono all’ordine del giorno, soprattutto a Palazzo San Gervasio, 5 mila abitanti, in Basilicata, al confine con la Puglia, dove il Comune è anche alle prese con uno sbarramento burocratico contro la Regione che vorrebbe piazzare in un ex tabacchificio non a norma anche un centro d’accoglienza per migranti stagionali.

Solo due mesi fa è scoppiata una rivolta per impedire che gli agenti provvedessero al rimpatrio di sei nigeriani. Cinque uomini in divisa sono stati aggrediti e c’è stato anche un tentativo di incendio. Due mesi prima era accaduto a Torino, dove gli ospiti della struttura avevano dato alle fiamme i materassi (ma l’aggressione per evitare le espulsioni è una prassi anche a Bari).

Le due strutture detengono pure il record di tentativi di fuga. «Uno ogni due giorni», fanno sapere dalla Questura di Torino. Gli immigrati cercano di scavalcare le mura di recinzione utilizzando lenzuola intrecciate alle quali legano un contrappeso da lanciare oltre il muro. Ad aprile, invece, dal centro lucano sono riusciti a scappare in 22. Hanno tenuto per qualche giorno la popolazione col fiato sospeso, poi, però, sono stati bloccati tutti. Ma a togliere il sonno a polizia e carabinieri ci sono anche i continui reati commessi all’interno della struttura: a settembre, per esempio, un tunisino, un marocchino e un libico in attesa di espulsione hanno cercato di violentare sessualmente un altro ospite e sono stati arrestati in flagranza.

Le operazioni antidroga sono all’ordine del giorno. E, addirittura, lo scorso luglio è finito in manette un mediatore culturale siriano che aveva portato nel Cpr sei dosi di hashish confezionate e pronte da spacciare e anche un coltellaccio da cucina. A Torino, invece, un italiano si è introdotto nel centro con delle scatole di biscotti da consegnare a un ospite del centro. Gli agenti hanno notato che quattro confezioni presentavano un’anomalia nella sigillatura.

Insospettiti, hanno aperto le scatole e, mischiati tra i biscotti, hanno trovato 21 involucri di cocaina. Nella stessa giornata alcuni poliziotti hanno intercettato una mela lanciata dall’esterno della struttura oltre il muro di cinta: dentro c’era un pacchettino con qualche grammo di hashish. A fine settembre, invece, un corriere marocchino ha provato a oltrepassare i controlli nascondendo la droga in alcuni vasetti di yogurt alla frutta. Le confezioni, però, sono risultate di peso superiore rispetto a quello dell’etichetta e sono scattati i controlli: l’immigrato è stato arrestato.

Durante le perquisizioni, poi, salta fuori di tutto: spranghe in metallo, lamette, pezzi di plastica dura affilati, bulloni appuntiti, pugnali artigianali, frammenti di metallo acuminati e molto altro ancora. E, così, per i disordini di agosto nel centro Brunelleschi di Torino sono sati espulsi subito otto tunisini e tre marocchini. A guidare le rivolte, di solito, sono i radicalizzati. A settembre 2018 sono stati espulsi tre egiziani che nel Cpr di Roma inneggiavano ad attentati contro i Paesi occidentali. Dal Cpr di Torino, poi, è transitato più volte anche un ex imam considerato molto pericoloso: Abdelghani Otman, 35 anni, pluripregiudicato. Da detenuto ad Alessandria tifava per i miliziani dello Stato islamico e mentre in tv passavano le notizie su alcuni attentati in Europa è stato intercettato mentre affermava: «Cristiani maledetti, devono morire tutti».

Il macedone Agim Miftarov, invece, è stato arrestato mentre a Palazzo San Gervasio era in attesa di espulsione. L’accusa: addestramento con finalità di terrorismo internazionale. Il macedone era stato portato nel Cpr dopo una perquisizione. Sul suo profilo Facebook c’erano fotografie di terroristi armati e iconografie riconducibili a organizzazioni terroristiche. Aveva visionato circa 900 video di addestramento dell’Isis sull’uso di armi da guerra. E ovviamente nel centro faceva propaganda. Senza che nessuno se ne fosse accorto, poi, il Cpr di Brindisi ospitava due tunisini ricercati. La loro copertura è saltata per colpa dei controlli incrociati sulle banche dati effettuati dagli agenti dell’Ufficio immigrazione della Questura di Brindisi. Sono stati loro a scoprire che Youssef Ben Chedlj Jouini, 38 anni, era destinatario di un ordine di carcerazione del Tribunale di Napoli per una condanna definitiva a otto anni di reclusione per reati di droga. Nel Cpr, però, ci era arrivato con un altro nome sui documenti.
Stessa trafila per Mohamed Tahar Fakraoui, 33 anni, tunisino. Anche lui era uno spacciatore con documenti falsi. E chissà quanti altri clandestini, dopo le loro scorribande criminali in Italia, attendono il rimpatrio con un’altra identità.
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