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Foto Simona Santoni
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Buon Natale, tra le macerie del Terremoto

A tre anni dal sisma ci sono ancora migliaia di sfollati tra Marche, Abruzzo, Umbria e Lazio

Quando il sindaco di Castelsantangelo sul Nera, Mauro Falcucci, disse ai suoi cittadini che per la ricostruzione ci sarebbero voluti almeno 15 anni, lo accusarono di fare dell’allarmismo. Era trascorso appena un anno dalle tragiche scosse di agosto e ottobre 2016 e il governo in carica era generoso di promesse. Sono passati altri due anni, siamo al terzo Natale, e sui Monti Sibillini, in quell’area compresa tra Visso, Castelsantangelo e Ussita, epicentro del terremoto, negli 8 mila chilometri quadrati del «cratere», il tempo sembra essersi fermato. I riflettori si sono spenti e anche le scosse recenti che hanno risvegliato la memoria di quei giorni non fanno più notizia. Quel territorio sembra dato per perso definitivamente.

Ci sono circa 48 mila sfollati, alloggiati in albergo, in affitto e nei container. Le ultime «casette», le Sae, che avrebbero dovuto essere essenzialmente abitazioni di emergenza subito dopo la scossa, sono state consegnate a Castelluccio di Norcia la scorsa estate. Ed erano comunque inutilizzabili perché prive degli allacci per le utenze. A Tolentino - unico Comune del cratere a rifiutare quei prefabbricati - 250 persone, più che altro anziani o famiglie numerose, vivono ancora nei container, cioè in stanze di 2 metri e mezzo per 5, con bagni, docce e mensa in comune.

In tutto il cratere sono alloggiati tra container e Mapre (i prefabbricati rurali) circa 1.200 persone mentre 1.224 risiedono negli alberghi. E lo Stato continua a pagare. Sono 37.159 le persone che ricevono il contributo pubblico per vivere in case in affitto o negli alberghi. Finora sono stati spesi circa 372 milioni. Sembra un pozzo senza fondo.

La politica continua a sfornare decreti che dovrebbero servire ad accelerare la ricostruzione. Ma nelle quattro Regioni colpite dal sisma - Marche, Abruzzo, Umbria e Lazio - ci sono problemi vecchi che attendono una risposta. Gli interventi sulle abitazioni distrutte o lesionate marciano a rilento, i cantieri non si riescono ad aprire, i progetti non vengono presentati, i soldi stanziati non sono spesi, per il semplice fatto che ci sono cumuli di macerie da smaltire.

Al termine della sequenza sismica, che durò diversi mesi, le Regioni interessate avevano stimato in 2 milioni e 428 mila tonnellate le macerie da eliminare, considerando solo quelle pubbliche, escluse quindi le abitazioni crollate. Ora emerge che si tratta di cifre nettamente inferiori a quelle reali. La sottostima dell’Umbria è del 53 per cento, mentre le Marche si ritrovano da gestire circa 50 mila tonnellate in più rispetto al milione e 300 mila indicate preventivamente.

Una valutazione aggiornata indica che ci sono oltre 700 mila tonnellate di rottami ancora da rimuovere, ma si va a un ritmo di 500 tonnellate al giorno.

Come mai tanta lentezza? La risposta non è univoca, poiché hanno contribuito diversi fattori, dalle procedure burocratiche lunghissime agli scontri tra amministrazioni con il rimpallo delle responsabilità, agli scandali per sospetta o accertata corruzione. Ma soprattutto i tempi della rimozione sono stati condizionati dalla superficialità con cui è stato affrontato il problema all’inizio e dall’altrettanta superficialità di accorgersi, solo dopo tre anni, che il meccanismo così com’era stato strutturato non funziona.

A settembre 2016, dopo la scossa che ha spianato Amatrice,nell’Ordinanza 391 del capo della Protezione civile, le macerie erano assimilate ai rifiuti urbani e la loro rimozione e trasporto era affidata alle aziende che li gestiscono nelle zone interessate. Nelle Marche, la gestione dei materiali provenienti dai crolli è stata affidata a due aziende: la Cosmari per Macerata e la PicenAmbiente per i territori di Fermo e Ascoli Piceno. Il trattamento, secondo il piano macerie regionale, comprende ben sette complessi passaggi che dipendono a loro volta dall’ordine di demolizione, anch’esso sottoposto a una lunga procedura. Questo il percorso che somiglia a una via crucis: prima cernita manuale, in loco, per bonificare tracce di amianto; recupero di frammenti che possano avere rilevanza storica o artistica (con l’aiuto del ministero per i Beni e le attività culturali e delle Soprintendenze) e di oggetti personali e beni di valore, il tutto rigorosamente tracciato; trasporto ai depositi; ulteriore cernita manuale delle macerie per recuperare oggetti preziosi o di valore affettivo che dovessero essere sfuggiti alla prima selezione, poi la separazione delle diverse tipologie di rifiuti quindi legno, cavi elettrici, metalli; archiviazione e catalogazione di tutti i beni personali rinvenuti; trasporto degli inerti a cura delle ditte specializzate, selezionate con gare d’appalto e, finalmente, frantumazione degli stessi per il recupero.

Questa esasperante lentezza ha rischiato di far  evaporare una parte dei 100 milioni di euro di fondi europei per l’emergenza, salvati in extremis facendo un conguaglio tra le Regioni più virtuose e quelle più arretrate con i lavori.

Solo dopo tre anni ci si è accorti che la procedura è lunghissima e che le aziende incaricate di gestire le macerie sono in affanno. Bisogna aspettare l’ultimo decreto sisma per consentire ad altre società, oltre a quelle che si occupano di rifiuti urbani, di rimuovere edifici crollati e di utilizzare impianti di smaltimento mobili. Ogni camion infatti riesce a trasportare appena 20 tonnellate di materiali al giorno. I problemi non sono solo nella cernita dei detriti. Questi una volta arrivati nei siti di deposito incontrano un altro stop. Su cinque posti di stoccaggio, previsti dal piano di smaltimento del 2017, solo tre sono attivi, ma sulla carta. Quello di Arquata, che dovrebbe gestire 100 mila tonnellate di macerie, è fermo per problemi di adeguamento delle misure di sicurezza e quello di Monteprandone non ha il nastro trasportatore. Solo uno dei due siti di Tolentino marcia a pieno regime.

E gli intoppi non finiscono qui. Tra la Regione Marche e il commissario straordinario del governo per la ricostruzione Piero Farabollini è scoppiato un contenzioso sui soldi per proseguire con lo smaltimento. Le Marche hanno minacciato di bloccare la raccolta se non avranno i fondi per coprire i costi, circa 7 milioni. Farabollini ha risposto che senza la documentazione sul nuovo piano di gestione dei rifiuti non si possono erogare i finanziamenti. Le Marche reclamano per il 2020-2021 altri 23 milioni...

Tra i paradossi della ricostruzione, c’è l’incapacità di spendere i soldi perché mancano i progetti. È quanto sta accadendo all’edilizia residenziale popolare. Entro dicembre 2018 le Regioni avrebbero dovuto realizzare gli interventi da loro stesse individuati nel 2017 e già finanziati. Ma su 197 milioni di euro disponibili, sono stati presentati progetti solo per 28 milioni tra Umbria, Lazio e Marche, nessuno in Abruzzo. I cantieri non sono stati ancora aperti e il commissario Farabollini è dovuto intervenire presso l’Anac per rimettere in gioco i 170 milioni inutilizzati.

La ricostruzione pubblica prevede 2.291 interventi finanziati con due miliardi e 160 milioni di euro dal Mef (ministero dell’Economia). Secondo le stime servirebbero 22 miliardi. Ebbene a fine settembre scorso erano stati erogati appena 49 milioni a progetti in corso. Per le scuole, il piano prevede 23 interventi di ricostruzione. A oggi ne sono stati completati solo otto mentre sei sono in corso.

Situazione di stallo anche per la ricostruzione privata. Per velocizzare le procedure, il decreto Sblocca cantieri ha previsto che le pratiche possono essere sbrigate anche dai Comuni oltre che dagli Uffici speciali delle Regioni. Pochissimi sindaci però finora si sono fatti avanti. L’iter per aprire un cantiere è rimasto invariato rispetto a quanto previsto nel 2017, nonostante sia evidente che non funziona. Lo dicono i numeri. Per la ricostruzione privata ci sono circa 20 miliardi di euro con credito d’imposta. Dal 10 agosto 2017 al 30 settembre 2019 sono stati messi in circolo poco più di 237 milioni. Le richieste di contributo inoltrate finora solo 10.414 su 79.320 edifici danneggiati. Ma di quei 10 mila progetti appena il 35,3 per cento è stato approvato. Di questo passo ci vorrebbero quasi 80 anni per esaminarli tutti. 

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Laura Della Pasqua