Afghanistan: tutti i perché della storica apertura del governo ai Talebani
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Afghanistan: tutti i perché della storica apertura del governo ai Talebani

Il presidente Ghani ha offerto al movimento integralista una tregua in cambio del riconoscimento politico

Un’apertura che ha il sapore di un evento storico quella che il presidente afghano, Ashraf Ghaniha offerto ai Talebani. La proposta prevede una tregua in cambio del riconoscimento politico.

Inaugurando una nuova riunione del cosiddetto “Processo di Kabul” davanti ai delegati di 25 Paesi e organizzazioni internazionali, Ghani ha dichiarato che "la pace non può essere raggiunta senza i Talebani", ammettendo di fatto la sconfitta delle politiche occidentali volte a trovare una strada alternativa per la riconciliazione nazionale.

Includere i Talebani in un processo di pace che vorrebbe mettere fine a oltre 16 anni di guerra, è un azzardo politico ma al tempo stesso un bagno di realtà.

Tra le lucide offerte avanzate dal capo di Stato al gruppo terroristico (oggi lo chiamiamo così, ma i Talebani rappresentano molto di più per l’Afghanistan), ci sono: il rilascio di un certo numero di prigionieri, secondo una lista ancora da stilare; la garanzia di un cessate-il-fuoco; l’assegnazione di passaporti per i combattenti e le loro famiglie; la creazione di un ufficio che si occupi di amnistiare i leader dell’organizzazione, togliendo loro le sanzioni e cancellandoli dalle liste dei terroristi. Ma soprattutto, c’è l’apertura alla revisione della Costituzione.

"Stiamo facendo quest’offerta senza precondizioni, nell’ottica di arrivare a un accordo di pace", ha affermato il presidente Ghani, che ha aggiunto come "l’obiettivo è quello di attirare i Talebani, come organizzazione, nei colloqui".

La trasformazione in partito politico

Insomma, alla fine di febbraio arriva quasi inaspettata una mano tesa dal governo afghano, che consentirebbe d’ora in avanti agli irriducibili mujaheddin di trasformarsi da gruppo combattente in un vero e proprio partito. È questa, infatti, l’unica precondizione posta dal presidente Ghani per dare concretamente avvio alla roadmap.

Dicevamo una mano tesa non proprio inaspettata, perché l’annuncio giunge dopo che mesi in cui Kabul e parte anche il resto dell’Afghanistan sono stati ripetutamente colpiti da ondate di attacchi terroristici che hanno fatto stragi immani tra civili, soldati afghani e numerosi stranieri, piegando il governo e minando la fiducia della popolazione nei suoi confronti.

Solo nel 2017, le forze armate afghane hanno subito in totale oltre 14 mila perdite, tra morti e feriti. E sono già quasi 400 le vittime nei primi due mesi del 2018. Tutto ciò, mentre i Talebani mantengono il controllo totale o parziale di circa metà dell’intero territorio, grazie a una forza operativa che oggi è stimata intorno alle 50 mila unità, solo per citare i combattenti.

Tuttavia, alla filiera del potere talebano vanno aggiunte quelle masse contadine che sono alle loro dipendenze esclusive per la gestione del territorio e, soprattutto, della coltivazione di oppio, principale risorsa del gruppo ribelle, che permette ai narcotrafficanti di ricavare il 90% dell’eroina mondiale.

L’oppio, principale risorsa talebana

Per capire l’entità del problema, secondo l’ultimo rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro il traffico di droga e la criminalità organizzata (UNDOC), oggi si è passati dalla produzione di 4.800 tonnellate di oppio del 2016 alle oltre 9.000 tonnellate del 2017, segnando un incremento dell’87%.

Un business enorme, che è e resta saldamente nelle mani dei Talebani e di altri gruppi tribali, spesso legati ai signori della guerra locali. Tra questi ultimi, non si può non citare la rete degli Haqqani, il più potente clan tribale afghano, vicino agli stessi Talebani e nato come clan familistico di tipo mafioso-religioso: la loro rete può contare su una struttura militare che, secondo le stime dei servizi segreti occidentali, arriva quasi a 15 mila unità. Anche loro sono nel business degli oppiacei.

Va infine menzionata la presenza in Afghanistan dello Stato Islamico, il cui peso tuttavia è ben più ridotto: sarebbero appena mille gli operativi attualmente presenti sul suolo afghano.

Strategia o bandiera bianca?

Tutto ciò deve comunque far riflettere. Cosa intende fare il presidente Ghani nei confronti degli Haqqani? E come pensa di sfilare il controllo dell’oppio ai Talebani?

Passi la certezza che i membri dello Stato Islamico verranno perseguiti, ma che fare con i campi di droga? Perché, sia chiaro, è da lì che passa tutto il potere dei Talebani. Ed è fantascienza immaginare che questi ultimi possano abbandonare un così fruttuoso commercio. A meno che non vogliamo pensare che il governo con questa apertura abbia voluto alzare bandiera bianca e ammettere la sconfitta.

Che si stia cioè preparando a cedere il passo - e dunque i palazzi del potere - a una forza antisistema come quella dei Talebani che, qualora dovessero tornare al potere stavolta magari attraverso elezioni, di certo non farebbero altro che ripristinare un governo (o meglio, un regime) come quello sorto tra il 1995 e il 1996, quando emersero come vincitori della guerra civile afgana scaturita all’indomani del ritiro dell’URSS.

All’epoca, fu instaurato un regime teocratico basato sulla rigida applicazione della legge coranica, poi rovesciato dall’intervento NATO del 2001, quando gli americani come noto scatenarono la caccia a Osama Bin Laden, che si riteneva fosse nascosto tra le impervie montagne dell’Asia centrale.

Bin Laden fu poi scovato e ucciso in Pakistan nel 2011, il che ci riporta all’ultimo aspetto cruciale nell’analisi del caso: gli stretti legami che l’Afghanistan e i Talebani mantengono con Islamabad.

Il ruolo del Pakistan

Non è un caso che, nel suo discorso, il presidente Ashraf Ghani si sia rivolto proprio al Pakistan, invitandolo a favorire un dialogo bilaterale con i ribelli.

Kabul è pronta "a discutere con Islamabad, dimenticando il passato e cominciando un nuovo capitolo nelle nostre relazioni" ha detto il presidente. È un passaggio fondamentale, questo. Perché a oggi il Pakistan è considerato un "safe heaven" ossia un ottimo nascondiglio per la riorganizzazione dei gruppi islamisti. I quali, complici i confini porosi quando non esistenti tra i due Paesi, attraversano e si rifugiano spesso oltrefrontiera per coordinarsi e rifornirsi in vista di nuove azioni.

Recentemente, lo stesso presidente americano Donald Trump ha criticato duramente Islamabad, minacciando di tagliare i finanziamenti USA al governo se non uscirà dall’ambiguità di cui sopra, dove la connivenza con i terroristi è all’ordine del giorno da parte soprattutto dell’ISI, il servizio segreto pakistano.

In conclusione, nel processo di pace dovranno essere sciolti preliminarmente alcuni nodi: tra questi, proprio il ruolo e l’interesse pakistano nel mantenere l’Afghanistan instabile, la destinazione delle coltivazioni d’oppio e, non ultimo, il ruolo che intende giocare l’America.

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Luciano Tirinnanzi