C'eravamo tanto odiati
Manifestazione degli anni Novanta (Ansa)
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C'eravamo tanto odiati

La Rubrica - Come Eravamo

Da Panorama del 16 aprile 1994

Giù le mani dal 25 aprile.

Giù le mani, cari sconfitti del 28 marzo, cari compagni e partitanti vari che state preparando un corteo "antifascista" da scaraventare sulla bilancia a vantaggio delle vostre botteghe politiche. Giù le mani dall' onore e dal coraggio partigiano, dal dolore e dalla tragedia del nostro popolo, dall' interno di quegli italiani che dovettero sparare ad altri italiani perché il Paese tornasse alla libertà e riscattasse il sacrilegio dell' alleanza con i nazisti. Giù le mani ove queste vostre mani volessero attizzare l'odio e l'apologia della guerra civile, una guerra che s'è conclusa il 25 di aprile di 49 anni fa, e che ha lasciato cicatrici profonde nella comunità nazionale, un corteo infinito di lutti, le targhe sulle strade e sulle piazze a ricordare i morti fucilati o impiccati.

I nostri morti.

Ma anche i loro morti, ai quali oggi è possibile e necessario portare rispetto, e mentre un repubblichino che combatté in prima linea quale lo scrittore Carlo Mazzantini, l'autore di A cercare la bella morte, uno dei più bei romanzi sul tempo della guerra fra italiani, invita pubblicamente un suo avversario di allora, il comandante partigiano e medaglia d'oro Edgardo Sogno, a stringergli la mano nel segno della riconciliazione nazionale: invito che Sogno ha subito accettato.

La festa del 25 aprile deve essere la festa di tutti, ha detto Vittorio Foa, uno che passò 11 anni in una cella fascista perché reo di avere pensato in modo difforme dalla dittatura. Un'Italia riconciliata, secondo l'augurio dello stesso presidente della Repubblica, dove non ci sono e non ci devono essere cittadini di serie A e di serie B, ossia i vincitori e i vinti del 25 di aprile del 1945; di un'Italia dove sia sacra la memoria di chi lottò perché cessassero i rastrellamenti degli ebrei, e purché questa memoria non alimenti l'odio e lo scontro politico dell' oggi. Quell'odio era l'ossigeno stesso che respirammo noi ventenni degli anni Sessanta.

Il mio debutto in politica da diciottenne avvenne a celebrare per l'appunto un "25 aprile", e c'eravamo riuniti nella sede della federazione comunista, e avevo accanto Turi Toscano (futuro leader del movimento studentesco milanese) e una mia amica ebrea, figlia di uno degli innocenti massacrati alle Ardeatine. Cresciuti nel mito, caro all' estrema sinistra, della Resistenza "rossa", annunciavamo per ogni dove che i partigiani avrebbero dovuto non soltanto cacciare i nazi ma attuare la rivoluzione anticapitalista, punire fino all' ultimo fascista, trattare Vittorio Valletta più o meno come Kesselring. Farneticazioni che durarono a lungo e contro le quali ogni volta si opponevano uomini come Giorgio Amendola o Paolo Spriano, che pure avevano combattuto al tempo della divisione fra italiani. Farneticazioni che alimentarono una sorta di bis grottesco e orrido della guerra civile, noi ventenni che braccavamo quelli della parte avversa e ne eravamo braccati. Il leader dei neonazi della mia giovinezza, più tardi politologo e professore universitario vicino alla Democrazia cristiana, girava con in tasca il pugno di ferro ed era pronto a usarlo. La volta che cinque o sei fascisti puntarono contro la bacheca dell'università dov'erano i dazebao di noi studenti di sinistra, e cominciarono a commentarli sprezzantemente, io tirai fuori la cintura dei pantaloni, la attorcigliai attorno al pugno, nascosi il pugno sotto il cappotto, chiesi a un professore universitario di fare da testimone, e andai loro incontro. Avessero voluto, mi avrebbero fatto a pezzi. E invece solo mi sfotterono. Il pomeriggio, comunque, il dazebao era stato lacerato in mille pezzi

Negli anni Settanta le cinghiate in faccia e i cazzotti furono sostituiti dalle spranghe e dal revolver. Piombarono in cinque addosso a uno studente milanese di destra che non avevano mai visto in volto, il povero Sergio Ramelli, e di averlo ucciso (morì dopo 47 giorni di agonia) se n'erano quasi dimenticati quando la polizia venne a cercarli, vent'anni dopo. Renato Curcio come Giusva Fioravanti vennero alla politica nell'idea che quelli dell'altra parte fossero solo l'incarnazione del male e andassero cancellati dalla terra. Terribile sarebbe stata la girandola degli agguati e delle rappresaglie, ove fosse stata attuale la proposta di mettere il Msi fuori legge, che a metà degli anni Settanta ebbe purtroppo tra i suoi firmatari Riccardo Lombardi, uno che pure aveva visto i cadaveri appesi a piazzale Loreto e ne aveva avuto orrore. Il grido che "uccidere un fascista non è reato" fu tra quelli che attizzarono i primi gruppi del terrorismo rosso. Saranno due fascisti patavini, e sia pure per caso, le primissime vittime delle Brigate rosse.

Ancora pochi anni fa, uno studente romano di destra che stava affiggendo dei manifesti in difesa dell' ecologia, Paolo Di Nella, venne ammazzato a sprangate, tanto che il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, rese omaggio alla sua salma. E finché l'odio non cadde finalmente dall' albero. Sono orgoglioso di avere partecipato, cinque o sei anni fa, a un'assemblea universitaria la cui parola d'ordine era il no alla violenza. L'aveva indetta l'allora segretario dei giovani missini e oggi deputato di Alleanza nazionale, Gianni Alemanno. Era seduto in mezzo a due miei cari amici che non si conoscevano ma che in quell' occasione si strinsero la mano, Antonello Trombadori, medaglia d' argento della Resistenza, e Giano Accame, che a 17 anni si era arruolato nella Rsi e subito era stato catturato dai partigiani.

Dal fronte stesso degli antifascisti, e fin dall'alba degli Ottanta, lo spregio e l'offesa avevano ceduto il campo al tentativo di capire. C'era stato l' immenso lavoro di dissotterramento di materiali e personaggi del ventennio da parte dello storico Renzo De Felice. C'era stato il bellissimo libro di Augusto Del Noce ov'era dato a Giovanni Gentile quel che spettava a Giovanni Gentile. C'era stata la pubblicazione e la ripubblicazione dei libri di quei fascisti che nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943 avevano detto basta all'alleanza con i nazi, Dino Grandi come Giuseppe Bottai. C'era stato il ripensamento della storia dell' antifascismo e la messa in luce, a partire dai libri di Angelo Tasca, degli errori di settarismo e di estremismo che avevano aperto la porta al giovane Benito Mussolini. C'erano stati i tanti convegni e mostre dov'era dimostrata l'assurdità della tesi che il fascismo fosse stato solo bestialità e non avesse avuto una sua cultura. E Filippo Tommaso Marinetti, Enrico Prampolini, Ardengo Soffici, Mario Sironi, il giovane Leo Longanesi, Massimo Bontempelli, Mario Carli, Pier Maria Bardi, Giuseppe Pagano e cento altri? C'erano stati i primi atti di buona volontà, i primi tentativi di guardarsi negli occhi e spiegarsi. Più di dieci anni fa ero stato tra i promotori dell'incontro che vedeva da una parte il comunista Massimo Cacciari e dall'altra alcuni dei leader intellettuali della Nuova destra, Marco Tarchi come Giuseppe Del Ninno. Molti anni prima della fioritura di giornali aperti a destra, quali Il Giornale di Vittorio Feltri o l'Indipendente di Pialuisa Bianco, una rivista di cui qualcuno si ricorda (e che aveva nel suo gruppo dirigente l'attuale direttore del Corriere della sera, Paolo Mieli), il mensile Pagina, compì quell'apertura nel segno della tolleranza e della comprensione. Nel segno di un'Italia dove ognuno portasse il fiore del suo talento alla costruzione della comune casa democratica.

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Giampiero Mughini