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2017: l'anno più difficile per la Turchia di Erdogan

Ankara paga il cambio repentino di politica estera. Dopo aver accantonato le ambizioni di leadership delle forze sunnite nella regione, si è accordata con l’Iran sciita e la Russia, finendo nel mirino del terrorismo

Ogni stato sovrano tende a sviluppare la propria politica interna ed estera in relazione alla forza, alla posizione geografica e al contesto in cui si trova. Se esistono potenze mondiali come gli Stati Uniti che si permettono di rivolgere le proprie mire in molteplici contesti geografici, al contrario le potenze regionali possono giusto permettersi di sviluppare una politica limitata ai propri confini, in base alle buone o cattive relazioni con i vicini. È il caso della Turchia.

Considerato che alcuni suoi vicini si sono, per così dire, dissolti con l’inizio della guerra siro-irachena, la politica estera di Ankara da allora si è dedicata progressivamente a espandere la propria influenza ai confini meridionali, con la prospettiva di divenire il paese-guida per le popolazioni sunnite della regione, in opposizione a curdi e sciiti.

Questo ha portato nel 2014 il governo turco a tollerare lo Stato Islamico e, più in generale, a cavalcare l’onda d’urto delle forze sunnite siriane e irachene, che pretendono la tutela dei propri interessi e l'emancipazione dai governi di stampo sciita. Per poi fare nel 2016 quella che nel gergo dei velisti si chiama “strambata”, cioè una decisa virata in direzione dei difensori dello sciismo nella regione, ossia Russia e Iran, che si è sostanziata nell’accordo raggiunto il 27 dicembre a Mosca per una tregua in Siria.

Il progetto neo-ottomano
Ma andiamo con ordine. La politica espansiva di Ankara è stata voluta dal suo attuale presidente Recep Tayyip Erdogan, già premier e leader del partito AKP, che ha cavalcato il periodo successivo alle Primavere arabe contando di poter facilmente convogliare la rabbia e le rivendicazioni delle grandi masse sunnite verso una serie di obiettivi, militari ancor prima che politici. Erdogan contava di riuscire a volgere in suo favore la guerra in corso, scoppiata perché si vogliono ridisegnare i confini ormai obsoleti di questa parte di Medio Oriente, frutto degli accordi anglo-francesi di un secolo fa.

L’idea di Erdogan era sostanzialmente tesa a ricalcare i fasti dell’Impero Ottomano. Per questo la sua politica estera puntava ad assoggettare quelle aree che Ankara considera tuttora il suo naturale bacino di pertinenza, ovvero il territorio che per circa cinquecento anni è stato dominio ottomano, a cominciare proprio da Mosul e Raqqa.

Per fare questo, Ankara ha inizialmente favorito l’espansione dello Stato Islamico e solo dopo, con il progressivo arretrare del Califfato, ha schierato direttamente truppe turche a presidiare il terreno perso dallo Stato Islamico, rivelando così ancor più chiaramente quali ambizioni geopolitiche nutra sopra la Siria e l’Iraq. Dopodiché ha rivolto le armi contro gli stessi uomini dello Stato Islamico che aveva inizialmente incoraggiato.

Il punto di svolta
C’è un preciso punto di svolta in questa storia. Ed è la fine di giugno 2016, quando Ankara chiude due importanti contenziosi aperti con altrettanti paesi molto influenti nell’area: Russia e Israele. Il 26 giugno, Ankara e Tel Aviv risolvono ufficialmente la questione pendente della Mavi Marmara (risalente al maggio 2010, quando Israele attaccò una nave turca che portava aiuti a Gaza); mentre il giorno seguente, Erdogan invia una lettera di scuse a Mosca per chiudere la controversia sull’aereo da caccia russo abbattuto dai turchi sul confine siriano (novembre 2015).

Sunniti abbandonati
Questi passi distensivi sono stati la spia del repentino cambio di alleanze che Erdogan avrebbe attuato subito dopo, sancito dalla trilaterale del 27 dicembre. Dopo essersi messo alla testa delle forze sunnite che si erano sollevate contro i governi sciiti di Baghdad e Damasco, dunque, il presidente turco si è infine avvicinato ai russi e al governo siriano, spiazzando tanto la NATO quanto le forze combattenti sunnite. Erdogan a quella data doveva aver già compreso che l’equilibrio sul campo si stava spostando decisamente in favore degli sciiti e dei loro sponsor, Russia e Iran, cioè proprio i due stati più potenti che confinano con la Turchia (la Russia attraverso il Mar Nero).

Strappando un accordo che gli lasciava mani libere per la repressione delle ambizioni curde, spina nel fianco dell’integrità territoriale turca, Erdogan è così sceso a più miti consigli e ha ridimensionato fortemente le proprie ambizioni territoriali su Siria e Medio Oriente, scongiurando una sconfitta inevitabile e soprattutto evitando di dover impegnare direttamente i propri contingenti militari, che ora può rivolgere soprattutto contro gli indipendentisti curdi, che negli ultimi due anni hanno guadagnato terreno in Siria e Iraq proprio a scapito della Turchia.

L’indipendenza curda e la vendetta sunnita
Erdogan però non ha valutato a sufficienza le conseguenze del “tradimento” nei confronti delle forze sunnite e la dichiarazione di guerra ai curdi. Non è un caso, infatti, che subito dopo gli accordi del 26 e 27 giugno, già il giorno seguente vi sia stato un sanguinoso attentato all’aeroporto Ataturk di Istanbul e che, dopo sole due settimane, un tentativo di golpe abbia messo a rischio la vita dello stesso presidente. Seguiranno poi gli attentati di luglio nella provincia di Hakkari, di agosto a Gaziantep, di dicembre a Istanbul, l’omicidio dell’ambasciatore russo ad Ankara e, ultimo in ordine temporale, la strage della notte di capodanno 2017, che ha colpito ancora Istanbul.
Tutti attentati che portano la firma ora dei curdi, i quali lottano per l’indipendenza da Ankara, ora dello Stato Islamico, che vuole punire il governo turco per il venir meno del suo sostegno.

Così, ecco che nel 2017 la Turchia si ritroverà a pagare caro le scelte azzardate degli anni passati e a dover gestire la nuova strategia di potenza regionale:
→ all’interno dei propri confini dovrà tentare di tutelarsi dalle azioni terroristiche dei curdi e dell’ISIS, che non accennano ad arrestarsi e sono anzi favorite dallo svuotamento degli apparati di sicurezza seguito al contro-golpe di luglio;
→ in politica estera, dovrà giustificare agli alleati della NATO l’essersi gettato con troppa facilità tra le braccia di Mosca.

Ankara, insomma, deve sperare di non restare politicamente e militarmente strangolata da una guerra che non è certo giunta alla fine. E, ancor più importante, dovrà guardarsi dalla vendetta sunnita, che non tarderà ad arrivare. Per questo, il primo a farne le spese potrebbe essere proprio lo stesso Recep Tayyip Erdogan.

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EPA/ALEXEI DRUZHININ/SPUTNIK/
La stretta di mano tra Putin ed Erdogan in occasione dell'accordo per il gasdotto Turkish Stream

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Luciano Tirinnanzi