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(Amazon Prime Video)
Televisione

«Il secondo miglior ospedale della Galassia», bene ma non benissimo

La serie animata Prime Video è un ottimo prodotto dal punto di vista grafico. Il resto invece stenta a decollare

Com’è bella la confezione: i colori sgargianti, le linee e le forme incrociate in un mondo ipotetico. La fantascienza la si immagina così, un mondo alla rovescia, dove gli alieni abbiano ibridato la razza umana e gli androidi costituiscano la normalità. Com’è perfetta la grafica del 14002, com’è accattivante. E, pure, com’è la sola ad essere degna di nota. Il secondo miglior ospedale della Galassia, parte del micro-universo di serie animate destinate ad un pubblico adulto, ha debuttato su Amazon Prime Video senza fare rumore. Piacevole agli occhi, molto meno alle orecchie. Lo show, che con toni trionfali era stato annunciato come «la prima serie televisiva ad utilizzare lo schwa», non ha nulla dell’innovazione che si era stati indotti ad aspettarsi. Anzi. Le tematiche affrontate, quelle che da proclami avrebbero dovuto elevare il format, non semplice prodotto da binge-watching ma sofisticato mezzo attraverso il quale esplorare (criticare, raccontare) il reale, sono state trattate com’è ormai prassi. Con la stessa retorica falsamente disinvolta che si è già vista, già sentita, già respirata altrove.

Il secondo miglior ospedale della Galassia, dunque, la serie che avrebbe dovuto portare il 2024 sulla piattaforma streaming di Jeff Bezos, ha fallito nel suo intento. E, così facendo, ha fallito sul fronte dello spettacolo, inteso nell’accezione più leggera e slegata dalla contemporaneità che si possa trovare. La serie, all’interno della quale Vladimir Luxuria doppia (con risultati evitabili) il genio della chirurgia Azel, è un insieme raffazzonato di concetti e bandiere. Più di tutto, però, è confuso. Nessuna introduzione, nessuno spazio ad un racconto didascalico. Il secondo miglior ospedale della Galassia comincia «in medias res», come si dovrebbe dire: da un mondo lontano, da un anno, il 14002, in cui la clinica di Sleech e Klak, dottoresse aliene, non è riuscita ad imporsi sulla concorrenza. È buona, sì, ma non abbastanza, le sue primarie impegnate su base quotidiana ad onorare i propri principi etici e deontologici. Sleech e Klak, migliori amiche fuori e dentro il lavoro, non sono disposte a rinunciare a se stesse, alle proprie ideologie. Si danno da fare senza sosta per curare chiunque si presenti alla loro porta. Per debellare orrende parassitiansiofagi, per vincere le malattie sessualmente trasmissibili, per portare a compimento innumerevoli transizioni di genere. La loro fama ha percorsa la galassia in lungo e in largo, superandone i confini. Ma tanto non è bastato a garantire loro un primato di eccellenza. Sono seconde, eppure ridono, scherzano, si impegnano con la stessa serietà di sempre. E parlano, parlano tantissimo, parlano come se tutti sapessero, con l’odiosa e artificiosa disinvoltura che dovrebbe accompagnare il racconto della normalità. E su questa parola, «normalità», si gioca la battaglia che Il secondo miglior ospedale della Galassia perde sin dalle prime battute.

Quella che dovrebbe essere normalità, e come tale non aver bisogno di alcuna presentazione, è, in realtà, un’accozzaglia di elementi messi insieme alla rinfusa, con lo scopo (quanto meno apparente) di poter spuntare il maggior numero possibile di caselle. Gender Fluid. Transizione di genere. Identità non binaria. Salute mentale. Il tutto, condito da una generosa dose di libertinismo sessuale.

Il secondo miglior ospedale della Galassia è confuso e confusionario. E, per di più, non fa ridere né pensare. Non fa pensare nemmeno quando scomoda i sottotitoli per enfatizzare l’uso, in alcuni dialoghi, dello schwa. A leggerlo, nei mesi precedenti il lancio, ci si è chiesti come lo schwa e l’asterisco, oggi tanto di moda, avrebbe potuto essere tradotto in parole. Questo prometteva la serie Amazon, che, però, non ha poi fatto granché. Lo schwa, gli asterischi, la menomazione del genere identitario imposta dal rispetto di chi preferisce non dirsi né uomo né donna sono mancati. O, meglio, sono stati usati così poco e con così tante incertezza (soprattutto verbale) da rendere nullo l’effetto. Non fosse per i sottotitoli nessuno spettatore potrebbe mai accorgersi di questa preziosa innovazione. Come direbbe Shakespeare, dunque, se potesse vedere oggi le puntate di questa serie tv, «Tanto rumore per nulla».

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Claudia Casiraghi

(Milano, 1991)

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