Paolo Villaggio
(Rai)
Televisione

​«Ero la figlia di Fantozzi; che vergogna»

Parola di Elisabetta Villaggio, primogenita del grande comico che Rai 1 celebra con Com’è umano lui!, il biopic su Paolo da giovane

Mancava giusto il biopic su Paolo Villaggio: Com’è umano Lui! andrà in onda il 30 maggio su Rai1 ed è un regalo a tutti i fan di Fantozzi. Diretto da Luca Manfredi, racconta del più cinico ed eccentrico dei comici d’Italia, ma da giovane: quando negli anni Sessanta tirava tardi e s’ubriacava di vita (e parecchio altro) con Fabrizio De André e Polio, gli amici fraterni di Genova, e dell’amore per Maura, sposata a 16 anni appena. Per lei e la figlia fu costretto a fare l’impiegato per sette anni alla Cosider: era stato il padre ingegnere a trovargli il lavoro perché qualcuno doveva pur mantenerla, quella bambina.

Ispirati da quel travagliato tempo vuoto perso a giocare a battaglia navale alla scrivania sarebbero poi nati Fracchia e quel disgraziato di Fantozzi, parodia del travet che dal ’75 in poi entrò nella storia del cinema. Elisabetta Villaggio, la primogenita, ha lavorato insieme al fratello Piero alla sceneggiatura della sua irresistibile biografia cinematografica. E proprio a lei abbiamo posto qualche domanda.

Finalmente un film prodotto dalla Rai in cui gli attori non hanno l’accento romano. Che è successo?

«Enzo Paci è genovese, infatti: e ha perso 10 chili per questo ruolo perché mio padre da giovane era molto mago. Siamo stati attenti a rendere il film il più veritiero possibile. Il regista ha voluto conoscere mia madre e così è stato per l’attrice che la interpreta. La costumista ha riguardato le foto di famiglia per riprodurre pedissequamente i look dell’epoca e io e mio fratello Piero abbiamo lavorato alla sceneggiatura perché volevamo che i dialoghi fossero autentici. Abbiamo esercitato tanto la memoria». E così si scopre che il merito è tutto di tua madre.

Com’è andata?

«Si sono conosciuti che lei aveva 16 anni, lui 19 ed è rimasta subito incinta di me. I loro genitori non l’hanno presa bene perché mio padre non aveva neanche un lavoro ed era considerato un fannullone. Quindi mio nonno l’ha costretto a fare l’impiegato alla Cosider per mantenerci. Dopo sette anni di frustrazione totale mia madre lo ha convinto a licenziarsi. Perché lei ha sempre creduto in lui. Diceva. “Non avete idea di quanto è bravo Paolo, vedrete chi diventerà”. E infatti»

Che madre è stata?

«Si è sempre comportata da regina. Ha una personalità forte ed è stata viziata per tutta la vita da mio padre. L’ha sempre fatta sentire la numero uno anche se non è stato il migliore dei mariti. O forse proprio per questo. A 88 anni è ancora una donna bellissima. È stata una madre molto affettuosa, mi ha sempre fatto sentire amata, protetta. Poi si sono invertiti i ruoli».

In che senso?

«Io, a un certo punto, le ho fatto anche un po’ da madre. Io non ho mai dato fastidio, sono sempre andata bene a scuola perché ero una ragazzina organizzata. E lei si è appoggiata a me.»

Com’era avere per padre Paolo Villaggio?

«Molto complicato. Con mio padre mi sono sempre scontrata, ma alla fine mi sono resa conto che lui era più simile a me. Era autonomo, pieno di energia e amava essere circondato da amici proprio come me. Ma da piccola non volevo che nessuno mi imponesse niente, quindi bastava una qualunque richiesta per mandarmi su tutte le furie. Anche se in realtà lui ci lasciava molto liberi».

E a scuola ti chiedevano gli autografi di Fantozzi?

«No, mi prendevano in giro. E io mi vergognavo di essere sua figlia».

Perché?

«Sono sempre stata la “figlia di” e mai Elisabetta. Se andavo alle poste e compilavo un qualunque modulo mi chiedevano: “Parente di?”. E io: “No, omonima”. Al liceo poi me le sono anche prese da un gruppo di fascistone che mi canzonavano chiamandomi Cita».

In effetti la comicità crudele di tuo padre oggi non sarebbe affatto politically correct.

«Sì, lo denuncerebbero ogni cinque minuti. Ai tempi il conduttore era ingessato e ossequioso nei confronti dei telespettatori. Lui ha ribaltato la situazione scendendo tra il pubblico e insultandolo. Lo trattava proprio male quando faceva il professor Otto von Kranz. È stato dirompente e dissacrante e ha intercettato i giovani».

Si è ispirato a sua madre, per quel personaggio?

«Un po’, mia nonna aveva studiato in Germania e insegnava tedesco al liceo. Quando Maurizio Costanzo lo ha visto a teatro a Genova a riempire il vuoto di Jannacci, che quella sera era stato male, gli ha proposto un lavoro a Roma».

Per il ’68 era moderno.

«Ha rivoluzionato il linguaggio e la Rizzoli gli ha chiesto un libro su Fantozzi nel ’71. È uscito ad agosto in mille copie ed è andato a ruba, alla fine ne ha vendute un milione. Poi gli hanno chiesto il secondo e lui l’ha scritto in tre settimane».

Dove scriveva?

«Abitavamo in una casa piccola, quindi scrivendo a mano scriveva dove capitava. Anche in aeroporto in attesa del volo per Milano. Era velocissimo, del resto aveva iniziato a scrivere con De André da giovanissimo “il Fannullone”, un omaggio alla loro deriva fancazzista, e “Carlo Martello”»

È vero che si sentiva un attore di serie b?

«Aveva il classico complesso del comico, aveva l’angoscia di passare per sfigato rispetto agli attori drammatici. Soffriva perché la critica lo trattava come un buffone. Finché non l’ha chiamato Fellini e allora lì tutti si sono inchinati».

Era tirchio come si dice lo siano i genovesi?

«È una diceria, i liguri sono attenti piuttosto che tirchi. Mio padre i soldi li buttava proprio».

Cioè, che follie faceva?

«Offriva sempre cene e viaggi a chiunque e la gente che se ne approfittava alla grande. Firmava un contratto e comprava una macchinona nuova. Cose così. Poi è anche vero che i romani sono grandi scrocconi».

In che cosa era restato ligure?

«Non mostrava i suoi sentimenti e le sue emozioni. Ci ha insegnato la correttezza che, qui a Roma, è un valore raro».

Aveva un gemello. Simpatico?

«Erano eterozigoti e, oltre a non assomigliarsi, pur essendo cresciuti nella stessa stanza erano completamente diversi sia fisicamente che di carattere. Mio zio era visiting professor a Baltimora e insegnava scienza delle costruzioni alla Normale di Pisa. Uno era rigoroso, si alzava la mattina presto per andare a correre e l’altro amava tirar tardi. Mio padre era bulimico, il fratello anoressico».

Possibile che entrambi avessero un rapporto così malato con il cibo?

«Dicono dipenda dalle madri e non riesco neanche a immaginare che cosa abbia fatto mia nonna perché con me è sempre stata carina. Comunque ai tempi di disordini alimentari non si parlava e mio padre non ha mai visto uno specialista. Si curava da solo».

Sembra andasse pazzo per i funerali, è così?

«All’inizio della sua carriera inventava necrologi spassosissimi. E al funerale di De André mi ricordo che l’ho trovato in un angolo a piangere a dirotto. Era inconsolabile e, a un certo punto, mi ha detto: “Che bel funerale, io non ne avrò mai uno così”. Non si è mai vergognato di essere un invidioso».

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Ilaria Bellantoni

Avrebbe dovuto fare la maestra di sci, invece si è messa a scrivere. Duraniana e juventina, è famosa per fare domande imbarazzanti in ognuna delle quattro lingue che conosce. Laureata vanamente in scienze politiche, si occupa da sempre di costume e spettacolo e ha lavorato come caposervizio a Max, Myself, Glamour, GQ e Vogue Italia. Ha due figli (Berenice e Vittorio) e un golden retriever (Rio). Dopo aver pubblicato un libro, Lo chef è un Dio (Feltrinelli), è stata ghost writer di celebrità e politici e porta in giro il Festival della Parola Reloaded. Vive a Milano, ma sogna di trasferirsi in una villa a Ko Phangan. O in una baita a Courmayeur.

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