I Muse possono sbagliare un album, ma non un concerto
Ansa
Musica

I Muse possono sbagliare un album, ma non un concerto

Ieri sera il trio inglese ha infiammato i quarantamila spettatori dello Stadio Olimpico di Roma, confermando ancora una volta di essere una delle migliori live band degli ultimi vent'anni, nonostante gli ultimi dischi poco ispirati

Fino a qualche anno fa l'uscita del nuovo album di un artista o di un gruppo era propedeutica al lancio del tour (e viceversa), mentre oggi sono, di fatto, due mondi a parte, che viaggiano paralleli, con rarissime eccezioni. Lo dimostrano le classifiche di metà anno della Fimi, dove Maneskin, Ultimo e Pinguini Tattici Nucleari non figurano nelle primissime posizioni, eppure i loro concerti, tutti rigorosamente sold out, hanno venduto centinaia di migliaia di biglietti "veri" (è ormai un fatto notorio l'abitudine degli organizzatori di regalare biglietti a sponsor e ospiti per riempire spazi troppo fin troppo ambiziosi per alcuni artisti).

Un discorso simile si può fare per i Muse, una delle più importanti e rappresentative band alt rock degli ultimi trent'anni, i cui ultimi due album Simulation Theory e Will of the people sono ben lontani dai capolavori Origin of Symmetry, Black Holes And Revelations e The Resistance. Mentre Simulation Theory del 2018 abbracciava un electropop magniloquente e ambizioso, in cui l'elettronica giocava un ruolo enfatico, attingendo a piene mani all'immaginario retrofuturistico anni Ottanta di Blade Runner, Alien e Stranger Things, il più politico Will of the people del 2022, nelle stesse parole del frontman Matt Bellamy, è una sorta di "greatest hits album di nuove canzoni" dei Muse, sia nello stile alt rock che nelle tematiche distopiche e catastrofiste. “Will Of The People è nato tra Los Angeles e Londra ed è influenzato dalla crescente incertezza e instabilità nel mondo", ha dichiarato in una nota stampa il cantante e polistrumentista inglese. "La pandemia, nuove guerre in Europa, massicce proteste e rivolte, un tentativo di insurrezione, destabilizzazione della democrazia occidentale, crescente autoritarismo, incendi e disastri naturali e la destabilizzazione dell'ordine globale hanno influenzato Will Of The People".

Tematiche che sono ormai dei topoi per il trio di Teignmouth, che incarna meglio di tutti il suono del nuovo millennio, tra rock decadente, lampi di elettronica e suggestioni sinfoniche. Sebbene lo stile di Will Of The People ricalchi quello dei loro album più riusciti, è evidente che le nuove canzoni siano decisamente meno ispirate rispetto a quelle di 10-15 anni fa: Euphoria sembra una brutta copia di Knights Of Cydonia, il synth-pop di Verona, ispirata alla tragedia di Romeo e Giulietta di Shakespeare, è troppo kitsch anche per un fan dei Muse di lunga data, la title track Will of the people cita in modo fin troppo esplicito The Beautiful People di Marilyn Manson, mentre Won’t Stand Down e We Are Fucking Fucked sembrano rispettivamente un brano degli Imagine Dragons e degli Iron Maiden creati dall'Intelligenza artificiale. Tutte canzoni suonate, prodotte e arrangiate in modo impeccabile dai Muse, sia chiaro, che però non hanno quell'impatto e quel senso di urgenza tipico degli inni rock del trio inglese. Un album di riposizionamento, dopo gli esperimenti sonori di The 2nd Law e Simulation Theory (inframezzati dall'hard rock cupo di Drones), mentre, per quanto riguarda la dimensione live, i Muse si sono confermati ancora una volta, ieri sera alla Stadio Olimpico di Roma, una delle migliori live band contemporanee attraverso le loro inconfondibili ventate di pessimismo cosmico rese meno dolorose da melodie a presa rapida, energici riff di chitarra che sembrano arrivare direttamente dallo spazio, atmosfere epiche e magniloquenti da kolossal hollywoodiano.

Un piacere per gli occhi (non si contano, a fine serata, le fiammate, il cerchio infuocato con il logo del disco, i coriandoli, le maschere minacciose dei musicisti e gli enormi "mostri" mutanti sul palco), ma soprattutto per le orecchie, data la straordinaria capacità dei Muse, soli sul palco con l’aggiunta di un tastierista e percussionista, di dare vita a un sound ricco ed emozionante come quello di un’intera orchestra. Ed il sound potente, compatto, e pulito è il vero marchio di fabbrica del trio di Teignmouth, un suono che ti investe, ti travolge e ti intrattiene per due ore consecutive, senza un attimo di pausa e di noia. La scaletta, che si dipana attraverso venticinque brani con alcuni interludi funzionali, è un racconto con una sua intima coerenza, tra guerre, violenze, controllo sociale, pandemia, crisi climatica, bullismo e incertezza nelle relazioni. Un po' come avviene per Renzi e Calenda, anche le tematiche dei Muse vengono tirate per la giacchetta sia da destra che da sinistra, rendendoli difficilmente catalogabili da parte di chi cerca sempre di attribuire una patente di accettabilità o meno di un artista.

I Muse se ne fregano delle etichette, giocando volutamente con l'ambiguità di alcuni testi, mentre non scherzano mai sulla musica, il vero motivo del loro trentennale successo. Il rapporto d'amore tra Matt Bellamy (sposato con un'italiana) e il pubblico romano è vivo e palpabile: il frontman è abilissimo a modulare la voce e a tenere il falsetto, mentre stupisce sia come chitarrista che come pianista (da applausi la sua intro di You make me feel like it's Halloween, dove ha suonato una porzione de la Toccata e fuga di Bach). Il batterista Dominic Howard e il bassista Chris Wolstenholme sono encomiabili nella loro capacità di edificare un impressionante muro del suono e di contribuire ai cori dei brani: una macchina dell'alt rock oleata e pressoché perfetta. Il concerto si apre poco prima delle 22 con la title track Will of the people, ma sono il riff-mostre di Psycho e l'inno rock Hysteria ad accendere i 40.000 dello Stadio Olimpico, che cantano a pieni polmoni il coro “I want you now, I want you now,I feel my heart implode”. Le tastiere spettrali, la batteria marziale e l’inconfondibile riff di chitarra annunciano il capolavoro Resistance, che nel 2011 si è aggiudicato il Grammy Awards per Best Rock Album.

Dopo una melodrammatica ed eccessivamente kitsch Verona, la hit Time is running out è una vera scarica di adrenalina, che trasforma il prato dell'Olimpico in un'onda umana di entusiasmo. La recente You make me feel like it's Halloween, con la sua melodia da B-movie horror e la voce robotica, è tamarra quanto divertente, mentre il mix tra rock a-la-Queen e il dubstep di Madness funziona alla grande, confermando di essere uno dei migliori singoli dei Muse degli ultimi dieci anni. Il trio Teignmouth assesta un uno-due micidiale con Supermassive black hole e Plug in baby, accolti da un boato assordante. Matt Bellamy, scatenato sul palco e impeccabile nel caratteristico falsetto della canzone, regala nel finale di Supermassive black hole un eccellente assolo di chitarra, distorta ed effettata come da tradizione. Uprising e Starlight chiudono il concerto in un crescendo rossiniano, prima di una breve pausa e i due bis Kill or be killed e Knights of Cydonia, introdotta quest’ultima dalle malinconiche note di Man with Harmonica di Ennio Morricone e scandita dal coro da stadio “oh oh oh oh” per accompagnare la linea melodica. La chitarra di Matt Bellamy smette di ruggire dopo due ore intensissime, salutate dagli applausi scroscianti degli spettatori. "Grazie mille, Roma, vi amiamo!”, saluta Matt Bellamy, che, insieme agli inseparabili Dominic Howard e Chris Wolstenholme, suonerà il 22 luglio allo Stadio San Siro di Milano per il secondo e ultimo concerto del loro tour italiano. Un amore per l’Italia che, da oltre vent’anni, è sempre ricambiato.

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Gabriele Antonucci