Il mio gozzo è differente
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Il mio gozzo è differente

La Rubrica - Gente di Mare 2.0

Le prime immagini che mi si sono palesate davanti agli occhi ascoltando Domenico Senese e osservando i suoi gozzi sono state quelle delle escursioni alle Formiche di Grosseto. Ero una bambina che trascorreva gran parte delle vacanze estive a Talamone, alternando le discese alla caletta sotto casa alle uscite in gommone. Capitava spesso di salpare insieme a cari amici di famiglia che avevano, invece, un gozzo, uno splendido gozzo in legno, col ponte piano, gli imbottiti immacolati color corda, i parabordi foderati di un tessuto verde bottiglia, la barra del timone e gli ottoni delle bitte tirati a lucido. Partivamo con tutto il carico di provviste e dotazioni necessarie a trascorrere una lunga giornata in mare. Con il gommone eravamo soliti saltare sulle onde tenendoci ben ancorati alla cima che dall’anello di prua tenevamo stretta tra le mani seduti su un tubolare o, più spesso, davanti a chi stava alla guida (papà), al centro dello spazio abitabile. Il divertimento più grande era planare cercando di mantenere l’equilibrio, specie quando si dovevano schivare le scie dei motoscafi che ci sfrecciavano accanto, godendo dell’ebbrezza della velocità e degli schizzi che inevitabilmente ci ricoprivano il volto e i capelli di sale. Tutto questo quando l’uscita avveniva in solitaria.

Quando i compagni di viaggio di cui sopra si univano a noi (o noi a loro), il tragitto cambiava radicalmente: per condividere il sapore della trasferta, il nostro gommone doveva accontentarsi dell’andatura dislocante tipica del mezzo che avevamo accanto. Niente accelerazioni, planate, salti e corse alla meta. La bellezza dell’uscita in mare doveva necessariamente assaporarsi lentamente, senza fretta, senza accumuli di adrenalina né euforici entusiasmi. Il piacere stava tutto nella condivisione (si riusciva a parlare anche a distanza) del viaggio all’andamento lento del vecchio e affidabile diesel che aveva accompagnato quel gozzo e i suoi occupanti verso non so quante Formiche (sicuramente tante) prima di allora e, per diversi anni, anche dopo. Certo, agli occhi di una bambina iperattiva (non solo nella favella), quella differenza di prestazioni un po’ pesava, almeno nella misura in cui metteva un freno alla sete di emozioni forti. Poi però osservavo quel mezzo e non potevo non rimanere affascinata dalla sua bellezza, dal suo portamento, dalla sua stabilità e dallo spazio che sembrava non finire mai, almeno rispetto al gavone di prua del nostro gommone. «Sono due mezzi e due modi di andare per mare completamente diversi» mi ricordavano i rispettivi “comandanti” a ogni mio invito a dare un po’ di gas, tarpando sul nascere ogni (mia) velleità prestazionale. Qualche volta è capitato che parte dell’equipaggio si scambiasse per far vivere a turno la diversa esperienza di navigazione. In ogni caso si doveva scegliere tra l’uno e l’altro piacere. Il compromesso non era quasi mai appagante. Questo ricordo non è tornato alla mente casualmente: è stato indotto dai modelli più recenti di Cantiere Mimì. Fondato, oltretutto, anche se la storia parte da più lontano, nel 1975, mio stesso anno di nascita. Oggi a mandare avanti l’azienda è la terza generazione della famiglia Senese: Domenico e Massimo, figli di Salvatore e nipoti di “Mimì” (Domenico senior).

«Il cantiere è stato fondato da mio padre, Salvatore, ma già il nonno, che era pescatore, aveva iniziato a realizzare artigianalmente le prime barche in legno. Un’eredità di famiglia che ci è quindi stata tramandata insieme al nome di battesimo, il mio, dal nonno paterno, come si usa dalle nostre parti». Le “nostre parti” stanno per Napoli e il suo Golfo, radici ben impresse anche nella spiccata e piacevolissima cadenza di Domenico Senese, “amministratore tutto fare” di Gozzi Mimì. Già la definizione che dà del suo ruolo in azienda è indicativa della “dimensione” famigliare del Cantiere: «Mio padre, a cui dobbiamo l’avvio della produzione in serie con lo stampaggio delle barche in vetroresina, ha di fatto passato a me e a mio fratello il testimone dell’azienda di famiglia che è attiva su due fronti paralleli: la produzione e la manutenzione. Della prima mi occupo io mentre Massimo, entrato in cantiere una decina di anni fa, segue il refitting e il rimessaggio delle barche dei nostri clienti. Il mio ingresso operativo in Cantiere risale al 1990, ma la passione è cresciuta insieme a me sin da quando, dall’età di 10 anni, all’uscita da scuola, mi precipitavo in cantiere, la mia seconda casa». Il luogo in cui prendevano e prendono forma i desideri di una clientela da sempre molto affezionata e, soprattutto, appassionata. «È anche grazie al “passaparola” e all’entusiasmo che contraddistingue i nostri clienti che Gozzi Mimì non ha più bisogno di farsi conoscere e apprezzare. I possessori delle nostre barche sono probabilmente i nostri migliori “venditori”. Si dividono equamente in due tipologie opposte: gli amanti della barca open o walkaround, quella che oggi va per la maggiore, e gli estimatori dei modelli con cabine comode e spazi protetti anche in pozzetto che consentono di poter navigare per più mesi l’anno. Volendo trovare un “denominatore comune”, possiamo tranquillamente definire il nostro cliente una persona fine, dotata di gusto, che cerca un oggetto che rappresenti un bel equilibrio tra classico, retrò e moderno. Il gozzo è l’unico prodotto che può soddisfare queste tre prerogative».

Se, tornando al parallelo iniziale (il ricordo personale andava a ritroso di una quarantina d’anni), il divario prestazionale gommone/gozzo era congenito, da qualche anno, con la produzione più recente di Gozzi Mimì, non è più così scontato. Anzi… «Con i modelli firmati Valerio Rivellini, il progettista con cui collaboriamo orgogliosamente da diversi anni, la produzione si è fortemente caratterizzata per la perfetta unione tra forma e funzione, modernità e tradizione. Siamo così riusciti, dopo un intenso lavoro di revisione delle carene e degli stampi, a varare gozzi super leggeri, plananti, veloci, utilizzando pochissima potenza e “sdoganando” in questo modo il limite del gozzo classico che, invece, richiedeva tantissimi cavalli per raggiungere un po’ di velocità in più. La nostra attività di studio è continuamente orientata all’ottenimento di prestazioni sempre maggiori con minor potenza». Un risultato gradito anche dalle generazioni più giovani e iper impegnate. «Nel nostro caso, l’età media dei clienti si è abbassata sensibilmente, passando dai 60 e oltre ai 40/50 di oggi. Sono diportisti che amano le linee e gli spazi del gozzo, ma non vogliono rinunciare alle prestazioni. Le distanze dell’utente finale si allungano sempre di più mentre i tempi a disposizione sono sempre più ristretti. Tutti ci chiedevano barche più veloci rispetto al classico gozzetto da 7/8 nodi che impiegava due o tre ore per raggiungere una delle isole del nostro Golfo. Abbiamo quindi dovuto un po’ alla volta cambiare tutti i nostri scafi, che vengono realizzati con il processo di infusione sottovuoto, per renderli plananti, performanti e in linea con le mutate richieste del mercato». Un’opera non banale che stimola a chiedere: “Come si riesce a dare un imprinting moderno a un’imbarcazione molto classica, come il gozzo sorrentino?”. Una domanda rivolta direttamente all’ingegner Valerio Rivellini nell’intervista pubblicata lo scorso 14 marzo su Gente di Mare 2.0. «Non è facile – ci aveva risposto – prendere un oggetto storico, dislocante, a ponte piano, con il cuscinone a righe e trasformarlo in un gozzo walkaround. Intervieni quindi con linee morbide, materiali, colori, essenze, che ti ricordano i paioli dei Baglietto e dei Picchiotti di quaranta anni fa, e ti muovi con estrema precisione come quando affronti i paletti di una pista da slalom. Sai che se vai lungo hai perso…». Non solo nessuno in Gozzi Mimì è andato lungo, ma l’apprezzamento è talmente cresciuto che il Cantiere, che realizza in autonomia ogni fase della costruzione impiegando cinquanta persone tra interni ed esterni, produce oggi un centinaio di imbarcazioni l’anno con tempi di consegna da sei a dodici mesi, a seconda dei modelli. Barche realizzate per il mercato interno, seguito per l’80% con il rapporto diretto con il cliente, ma anche sempre più per l’estero, dove il grosso delle vendite si concretizza in Spagna, Croazia e Francia attraverso la rete di distributori locali. I modelli più richiesti? «Quelli di tutta la linea Walkaround, la più moderna: dal Libeccio 8.50 all’11. Allo scorso Salone di Genova abbiamo presentato in anteprima mondiale la nuova versione del Libeccio 11 Walkaround con una zona di poppa ridisegnata per offrire una spaziosità inedita per queste dimensioni. La gamma, che comprende modelli da 6,5 a 13,5 metri di lunghezza disegnati in 3D e realizzati mediante frese a controllo numerico a sette assi, contempla anche una vera “chicca”, un modello che nei porti si fa notare. È l’8.5 Classic, la nostra imbarcazione più elegante, apprezzata principalmente da chi ama distinguersi e predilige il classico gozzo a barra. Piace soprattutto, non l’avrei mai detto, ai quarantenni e sta andando molto bene sia in Costa Azzura sia nella penisola sorrentina».
I prossimi impegni e sogni da realizzare?
«Oltre a prepararci all’imminente Salone Nautico Internazionale di Bologna (dal 15 al 23 ottobre, ndr) dove esporremo sei modelli della linea Libeccio, mi farebbe davvero piacere che il cantiere di famiglia potesse in futuro essere portato avanti dai miei figli. Credo sia il desiderio di qualunque genitore alla guida della propria azienda. A Rosaria sto già passando qualche responsabilità e, soprattutto, la passione e il rispetto per il mare ereditata da mio nonno. Mi riempirebbe d’orgoglio riuscire a trasmetterle anche il valore più grande assimilato da mio padre: trattare ogni dipendente come fosse un membro della nostra famiglia. Un insegnamento importante che ci ha portato a crescere». E che, siamo certi, porterà a crescere anche la quarta, promettente, generazione della famiglia Senese.

Info: gentedimareonline.it

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Olimpia De Casa