terremoto Arquata del Tronto
Giuseppe Bellini/Getty Images
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Il terremoto e la montagna futura

Non volevo scrivere subito del terremoto, perché non mi piace scrivere dei lutti e delle emergenze; delle emergenze, perché non sono nelle posizione di aiutare e non mi va di cavalcarle, dei lutti, perché non sono i miei, sebbene mi siano in un certo senso vicini. Il terremoto mi ha toccato, ossia, in quanto vengo da zone vicine e simili a quelle colpite; perché sono originario della montagna appenninica, della montagna che è la spina dorsale d’Italia e che da sempre trema, con uno scuotersi che pare tuttavia inarrestabile da una ventina d’anni. Mi dispiace per le vittime, perciò, anche se non le conoscevo e non mi erano vicine (ma simili); ma mi spiace anche per la montagna che si sgretola, per quei paesi sulle montagne che non esistono più.
La questione, tuttavia, è precedente e più grave del terremoto in sé. Siccome le conosco e le capisco, quelle persone che hanno sofferto e che giurano di voler restare e di essere determinate a ricostruire, credo alle loro parole: so che faranno quel che dicono e che il loro lavoro sarà tenace e completo. Ma mi pare anche, e questo è davvero un dolore enorme che mi prende ogni volta che ci penso, che per la montagna nel suo complesso non ci sia più nulla da fare: andate a vedere su wikipedia l’evoluzione demografica di Arquata del Tronto, di Accumoli, di Amatrice, prima del terremoto, decenni prima del terremoto, e anzi in tempi di crescita economica, tutto sommato, di benessere, e poi vedete voi se su queste montagne si può davvero pensare al futuro o non si può soltanto celebrare l’ostinazione di chi vuole restare. Che è un sentimento che comprendo, che rispetto, e con cui mi sento solidale: si tratta di un’ostinazione coraggiosa, anche nobile, ma di cui si intravedono già i limiti, perfino temporali (una generazione, grossomodo).
La montagna italiana è morta da settant’anni, almeno; dalla seconda guerra mondiale, che ha combattuto eroicamente - è stata la sua guerra, la sua Resistenza - ma a cui non è sopravvissuta. Da allora, va disfacendosi, perde pezzi, è un corpo in lenta e inarrestabile putrefazione. I governi della Repubblica hanno fatto poco per fermare questa morte; e d’altronde non si può dire neanche che, tranne singoli episodi, per quanto gravi, l’abbiano favorita, ché la fine della montagna è scritta in equilibri sociali ed economici assai più grandi e in buona parte incontrollabili.
Resta però che parlare di “futuro” o “rinascita” è raccontarsi balle; nessuno ha un piano per questo, neanche chi presenta adesso le migliori intenzioni, che non voglio mettere in dubbio ma che anzi applaudo, per tappare i guasti del terremoto. Solo che, come detto, le falle sono altre, più profonde, e aperte da ben prima; e le loro conseguenze si vedono su tante cose, anche non legate alla montagna, come la gestione del territorio, delle acque, delle frane, tutte cose che poi fanno danni e vittime più a valle che a monte, ma che non possono essere davvero governate senza un presidio lassù, senza una popolazione stabile e numerosa che viva e regoli la montagna. L'emergenza è, prima di tutto, demografica (ma può chiamarsi "emergenza" una che dura da settant'anni?); e non pare, per una serie di ragioni, né risolvibile né affrontabile sul medio periodo.
Ma a questo punto, uno potrebbe chiedersi, se non te la prendi con il governo, con una politica passata, con qualche personaggio più o meno identificabile e identificato, e neanche con una grigia e facile poltiglia a caso (gli italioti; lo web; l’Europa; la globalizzazione; e via così…), allora con chi? È facile: col terremoto. Ma la prendo col terremoto perché è stato vigliacco e cattivo, giacché è venuto a battere la montagna proprio nel momento in cui mostrava una parvenza di vita, in quella breve stagione estiva in cui tornano i figli e i nipoti di chi è dovuto scappare a valle o molto più lontano. E aver fatto strage di quelle persone, che già potevano tornare poco e brevemente e che sarebbero tornate sempre meno con il tempo, è una crudeltà sciocca e feroce, che uno non si aspetterebbe da una natura che dovrebbe essere cieca e che si avvicina alla cattiveria brutale di un maramaldo, che si accanisce su chi è già a terra e non può più difendersi.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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