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Economia

Smart Working in continua crescita anche senza Covid: gli effetti sulle imprese e sull'ambiente

Secondo l'Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, il lavoro da remoto non va in pensione con la fine dell’emergenza pandemica, ma anzi continuerà a crescere sempre di più anche nel 2024, delineandosi come un modello che resiste e che ha effetti importanti, soprattutto sull'ambiente

Chi pensava che lo smart working durasse da Natale a Santo Stefano dovrà ricredersi. Il lavoro da remoto non va in pensione con la fine dell’emergenza pandemica, anzi torna a crescere e lo farà ancora più nel 2024. I dati dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano dicono che i lavoratori in smartworking in Italia sono 3,585 milioni, in aumento sull’anno precedente e con un +541% sul periodo pre-Covid. Sono cresciuti soprattutto nelle grandi imprese, dove sono oltre uno su due. E il modello impatta su ambiente, mercato immobiliare e mondo del lavoro.

Nel 2023 i lavoratori da remoto sono aumentati leggermente: 3,585 milioni rispetto ai 3,570 milioni del 2022. Una lieve crescita, ma che ci dice che il modello è ormai una realtà e che non si tornerà indietro. La stima infatti è che nel 2024 il numero di smart worker in Italia raggiungerà i 3,65 milioni. Quest’anno il lavoro da remoto è salito soprattutto nelle grandi imprese (1,88 milioni di persone) e lievemente nelle PMI (570mila lavoratori, il 10% della platea potenziale). I lavoratori da remoto sono invece ancora diminuiti nelle microimprese (620mila lavoratori, il 9% del totale) e nelle pubbliche amministrazioni (515mila, il 16%). Oltre nove grandi imprese su 10 (il 96%) prevede al proprio interno iniziative di smart working, in gran parte con modelli strutturati. E il 20% delle imprese è impegnato a estendere il modello anche a profili tecnici e operativi finora esclusi. Il lavoro da remoto è attivo nel 56% delle PMI e nel 61% degli enti pubblici, soprattutto nei più grandi.

Un modello che resiste e cresce e che ha effetti importanti innanzitutto sull’ambiente. Due giorni a settimana di lavoro da remoto vogliono dire meno spostamenti e minor uso degli uffici e consumi. Questo si traduce in un risparmio di emissione di 480 kg di CO2 all’anno a persona. Uno studio Enea sull’impatto ambientale dello smartworking a Roma, Torino, Bologna e Trento stima una riduzione del 40% all’anno a persona, con due giorni la settimana di lavoro da remoto. Oltre a un risparmio di 150 ore e di 260 litri di benzina o 237 litri di gasolio.

C’è poi un effetto diretto sul mercato immobiliare e sulla rivalutazione delle periferie. Lo studio del Politecnico evidenzia che il 14% di chi lavora da remoto ha cambiato casa e ha optato per i quartieri meno centrali e per le città piccole. Quindi rilancio di zone periferiche nelle grandi città e di zone dell’Italia meno ricercate prima. Oltre a un impatto sui prezzi degli immobili questo cambiamento ha generato iniziative di marketing territoriale e nuovi servizi, come nuove infrastrutture di connettività o spazi coworking.

E infine ci sono le conseguenze sul mondo del lavoro e delle imprese. Il consolidamento dello smart working ha portato con sé diverse sperimentazioni di nuove forme di lavoro flessibile: la settimana corta (progetti pilota in meno di 1 grande azienda su 10); eliminazione delle timbrature (nel 41% delle grandi aziende); introduzione di ferie illimitate (3%). E il 44% sta sperimentando il “Temporary distant working”, possibilità di lavorare completamente da remoto per alcune settimane o più mesi, continuativamente, a volte anche dall’estero.

Ma l’aumento e il consolidamento del modello di lavoro da remoto hanno fatto emergere anche i limiti di un lavoro non veramente “smart” e la necessità di manager e formazione per un “vero smart working”. “Restano numerose barriere a una sua applicazione matura. Troppo spesso è considerato semplice lavoro da remoto o strumento di welfare e tutela dei lavoratori – spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working - È quindi necessario ‘rimettere a fuoco’ lo smart working, identificandolo per quello che è realmente: non un compromesso o un male necessario, nemmeno un diritto acquisto o un fine in sé, ma uno strumento di innovazione per ridisegnare la relazione tra lavoratori e organizzazione”.
I veri smart worker sono quelli che oltre a lavorare da remoto hanno flessibilità di orari e operano per obiettivi. Ecco sono per questi lavoratori che si registrano livelli di benessere ed engagement più alti rispetto ai lavoratori che operano in presenza ogni giorno. Ma sono anche quelli più soggetti a forme di tecnostress e overworking. Qui entra in gioco il ruolo fondamentale del manager. Gli studi dimostrano che c’è un livello di benessere e di prestazioni migliori quando c’è un campo “smart”, che assegna obiettivi chiari, fornisce feedback frequenti e costruttivi, favorisce la crescita professionale e trasmette gli indirizzi strategici. Ed è su questo che serve formazione. Il 59% delle grandi aziende private e il 20% delle PA ha attivato iniziative di formazione per capi e collaboratori sulla gestione dei team da remoto.

Così l’Italia si affaccia al 2024: solo il 6% delle grandi imprese si dichiara incerta sul mantenimento del lavoro smart. Nelle PA l’incertezza aumenta (20%), nelle PMI il 19% non sa come o se la propria organizzazione prevedrà il modello di lavoro da remoto. Ma le previsioni parlano chiaro: crescita. Si stima che il numero di smart worker nel nostro Paese raggiungerà i 3,65 milioni. Chi pensava che lo smartworking durasse da Natale a Santo Stefano dovrà ricredersi.

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Cristina Colli