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Economia

Nuova Via della Seta: perché dipendere finanziariamente da Pechino è pericoloso

Gibuti, Kyrgyzstan, Laos, Maldive, Mongolia, Montenegro, Pakistan e Tajikistan sono già caduti nella trappola cinese

Gibuti, Kyrgyzstan, Laos, Maldive, Mongolia, Montenegro, Pakistan e Tajikistan: ecco gli otto paesi oggi dipendono finanziariamente da Pechino. E' questa la conclusione di uno studio pubblicato dal think tank di Washington Center for Global Development: gli otto trilioni di dollari che la Cina ha in mente di spendere per finanziare le infrastrutture della Nuova Via della Seta rischiano di creare una situazione di dipendenza estrema per tanti dei piccoli protagonisti dell'iniziativa che il presidente Xi Jinping identifica come il suo masterplan per garantire pace, stabilità e progresso economico su scala mondiale. 

One Belt One Road: di cosa si tratta

La Belt and Road Initiative (BRI, oppure OBOR) di Xi Jinping è un progetto di dimensioni enormi che promette di investire ben otto trilioni di dollari per costruire una nuova rete di infrastrutture, reti energetiche e tecnologiche che possano collegare in maniera più efficiente la Cina al resto dell'Asia, all'Africa e all'Europa. Anche se l'obiettivo dichiarato è quello di generare sviluppo e benessere nei 68 paesi coinvolti, ci sono buone ragioni per credere che Pechino miri soprattutto a sfruttare questa nuova rete per portare avanti le proprie priorità di ordine politico, economico e di sicurezza.

I dubbi sull'altruismo cinese

Una delle ragioni principali per cui gli esperti del Center for Global Development dubitano dell'altruismo cinese dipende proprio dall'entità dei fondi necessari per trasformare la BRI da sogno a realtà. Fino ad oggi, infatti, Pechino ha dimostrato di essere disposta ad andare avanti anche laddove i governi dei paesi in cui decide di investire non sono in grado di contribuire finanziariamente alla realizzazione del progetto. Ne trarrà comunque un vantaggio economico, verrebbe da pensare, perché, finanziariamente parlando, sarebbe logico aspettarsi un ritorno economico da tutti i lavori realizzati. E invece pare non sia così. Anzi, secondo gli esperti tanti dei ponti, delle ferrovie o delle centrali energetiche che la Cina sta costruendo sono destinate a registrare perdite per decenni. Ed è proprio l'assenza di un vantaggio economico chiaro a sollevare ancora più dubbi sui reali obiettivi che Pechino si propone di raggiungere con la sua Nuova Via della Seta.

I pericoli della dipendenza finanziaria

Secondo i calcoli del think tank americano, sono almeno 23 le nazioni che, a causa della BRI, rischiano di ritrovarsi in una posizione di semi o totale dipendenza economica dalla Cina. E otto di questi paesi potrebbero aver già raggiunto il punto di non ritorno. Ecco perché è auspicabile che la comunità internazionale, invece di rimanere a guardare, inizi a dialogare con la Repubblica popolare per definire delle regole ben precise nelle formule di finanziamento autorizzate e nella sostenibilità delle stesse, altrimenti il rischio è che, con effetto domino, la lunga mano cinese estenda questo rapporto di dipendenza a molte altre nazioni. Cosa vuol dire? Come ha spiegato bene Agi, una eccessiva esposizione proietta la Cina "al centro di importanti decisioni finanziarie nel caso in cui il debito in alcuni di questi paesi dovesse diventare insostenibile, andando addirittura a soppiantare il ruolo del Fondo Monetario Internazionale o di creditori privati". 

Numeri spaventosi

I numeri rielaborati da Agi sono allarmanti: "il peso del debito sul Pil in Kyrgyzstan derivante da progetti infrastrutturali crescerà al 78% dal 62%, e la quota detenuta da Pechino balzerà dal 37% al 71%. Stesso discorso si presenta a Gibuti, dove la Cina ha aperto la sua prima base militare: la quota del debito del piccolo stato africano detenuto da Pechino passerà dall'82% al 91% sul Pil". E mentre i tentacoli cinesi sembrano essere pronti a gestire le finanze di 15 altre nazioni (Cambogia, Afghanistan, Bhutan, Sri Lanka, Egitto, Etiopia, Iraq, Giordania, Kenya, Libano, Albania, Armenia, Bielorussia, Bosnia Erzegovina, e Ucraina), quelli che sono già caduti nella "trappola" cinese sembrano sempre più decisi a ribellarsi. Primi fra tutti Pakistan e Sri Lanka, che si sono ormai resi conto che il peso della Repubblica popolare sulle rispettive economie è ormai diventato schiacciante, e che per quanto le nuove infrastrutture siano destinate a migliorare l'efficienza e le potenzialità dei mercati locali, anche sul piano dei ricavi sarà Pechino ad intascarsi la fetta più grossa.

Come invertire questa pericolosa dinamica

I ricercatori del Center for Global Development hanno lanciato il loro allarme: è necessario intervenire prima che sia troppo tardi. OBOR deve diventare più internazionale ed è necessario mettere a punto nuove regole e criteri condivisi per l'emissione dei finanziamenti. Ma il problema è che da un lato la Cina non cerca alcuna collaborazione, anzi, sembra preferire di gran lunga andare avanti da sola. Dall'altro, i tempi di reazione della comunità internazionale sono notoriamente biblici. La posta in gioco però è molto alta. Ecco perché c'è da sperare che qualcosa cambi prima che l'effetto domino previsto da Washington prenda forma.


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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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