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(Unsplash)
Economia

Google patteggia una causa da 5 miliardi di dollari, perché le big tech sono (quasi) intoccabili

Big G evita una causa per violazione della privacy, un altro caso che allunga la lista di scandali e multe per cattiva condotta che non scalfiscono il potere e l'immagine delle grandi aziende tecnologiche

Google tracciava gli utenti che utilizzavano il browser Google Chrome anche quando questi impostavano la modalità Incognito, proprio per non lasciare tracce circa i siti visitati. Così nel 2020 un pool di avvocati ha depositato una causa per violazione delle norme su privacy e intercettazioni, a nome di milioni di utenti ingannati dall'attività di Big G, chiedendo almeno 5.000 dollari per ogni singolo utente. Una mossa che ha fatto lievitare il conto a 5 miliardi di dollari.

Come sempre in questi casi, la prima mossa di Google è stato presentare ricorso, respinto da Yvonne Gonzalez Rogers, la giudice californiana chiamata a dirimere la questione. Costretta a far fronte all'idea di una spesa ingente quanto imprevista, l'azienda di Mountain View ha trovato un accordo con gli avvocati della controparte, evitando di avviare una disputa legale che l'avrebbe vista soccombere, con evidenti danni di immagine, oltre che finanziari. E quindi, per limitare i danni, è stato deciso di mettere le mani nelle tasche e assicurare una cifra (che non è stata divulgata), forse equivalente alla richiesta, più probabilmente minore ma in grado di soddisfare i desideri degli accusatori.

Al di là dei tempi tecnici, perché sarà il tribunale a validare l'accordo per il risarcimento, l'episodio è solo l'ultimo dei tanti che manifestano la doppia morale delle big tech: predicare bene e razzolare male, perché sono aziende (enormi) che muovono in nome del profitto e con buona pace degli utenti/clienti. Nel caso di Google, l'accusa ha dichiarato come “il ricorso a cookies, app e strumenti di analytics” ha permesso all'azienda di ottenere “un tesoro di informazioni”, inclusi dati su “amici, hobby, abitudini di acquisto e ricerche online potenziante imbarazzanti”. In sostanza, dunque, ciò che serve per affinare gli annunci personalizzati da proporre al singolo utente, con gli inserzionisti contenti e le casse aziendali sempre in ottima salute.

L'elenco delle cattive condotte è lungo e ha pescato in fallo pressoché tutte le più popolari piattaforme di social media e le rispettive aziende. Nella quasi totalità dei casi, l'oggetto del contendere è la raccolta e il trattamento dei dati personali degli utenti, che va evidenziato, pur senza voler generalizzare, in molti casi hanno la colpa di muoversi online con estrema leggerezza e tanta disattenzione. Lo scandalo Facebook-Cambridge Analytica (con la raccolta delle informazioni sensibili di 87 milioni di account, senza il loro consenso, per obiettivi di propaganda politica) rappresenta, forse, il momento più alto della fiducia tradita da parte delle grandi aziende tech. Che grazie alla popolarità e alla pervasività raggiunta dai rispettivi servizi, alla fine non pagano quasi mai gli sbagli che commettono. All'iniziale reazione di pancia, l'utente medio fa seguire un ritorno alla normalità, con l'abitudine che vince sulla memoria.

Le multe inflitte dalle autorità garanti arrivano, spesso in ritardo, ma non sempre centrano il bersaglio, tra chi ingaggia lunghe battaglie legali (poche aziende possono permetterselo come quelle tecnologiche, restando alle più ricche e influenti) e chi sceglie il male minore, trovare cioè un accordo che neutralizza le spine incontrate lungo il cammino. I precedenti, però, dovrebbero insegnare che in tema di scelte, attività e servizi che si utilizzano, continuare a considerare la vita digitale diversa da quella reale è una visione che rischia di presentare prima o poi un conto che è meglio evitare.

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Alessio Caprodossi