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(Ansa)
Economia

Cause ed effetti dell'addio dell'Italia alla «Via della Seta»

Marcia indietro del Governo Meloni che si riallinea a Bruxelles ed agli Usa; ma quanto ci costerà resta un mistero

L’ultimo slancio internazionale del Movimento 5 Stelle si è infine esaurito. Palazzo Chigi ha ufficializzato l’uscita dell’Italia dall’accordo commerciale con la Cina sulla Belt and Road Iniziative, altrimenti definito «Nuova Via della Seta». In scadenza nel marzo 2024, secondo la versione poetica - o meglio nella narrazione di Beppe Grillo, che aveva trovato nell’ambasciata di Cina in Italia una sponda fin troppo amica - quell’accordo avrebbe giovato incredibilmente all’economia italiana aprendo nuove e profittevoli rotte commerciali in contro-dipendenza rispetto all’Occidente «imperialista che tanti disastri ha compiuto negli ultimi cicli economici».

Pur disattendendo le linee strategiche comunitarie e disconoscendo implicitamente quelle atlantiste (con la complicità della Lega), il Governo Conte aveva promosso a più riprese l’iniziativa-cardine della politica estera cinese: almeno fino a che questo «accordo quadro non vincolante» siglato in pompa magna nel 2019 non si è tramutato in un boomerang allo scoppio della pandemia. Un tempismo imperfetto nel bel mezzo della tempesta perfetta. Già, perché da quel momento in avanti il governo di Pechino ha disvelato tutti i limiti e le enormi problematiche connesse alla sua gestione politica, economica, sanitaria e sociale del miliardo e quattrocento milioni di cittadini che si trova a dover gestire.

Eppure, nessun altro Paese «che conta» era caduto nel tranello pechinese: il Governo Conte è stato infatti l’unico tra i Paesi del G7 ad aver sottoscritto un simile memorandum, incurante tanto delle conseguenze geopolitiche quanto delle dinamiche diplomatiche che una simile intesa avrebbe scatenato. L’improvvida stretta di mano con i cinesi da parte dei gialloverdi non solo aveva fatto traballare l’amicizia con gli americani e indispettito la Nato, ma quello che era parso un «nuovo corso» frutto di un lungo lavoro diplomatico, si è invece rivelato un nulla di fatto, oscillante tra un clamoroso buco nell’acqua e un flop annunciato.

Eppure, agli economisti e agli analisti che consigliavano l’allora governo sarebbe bastato osservare più da vicino le dinamiche macroeconomiche dell’Asia e studiare meglio le manovre finanziare della Repubblica Popolare Cinese contemporanea, per comprendere come la Belt and Road Iniziative altro non era se non un ardito tentativo da parte di Pechino di far fronte al gravissimo problema che il Paese vive da ormai anni: una crescente crisi occupazionale, dovuta tanto al calo demografico quanto a un modello industriale basato sulla falsa credenza che l’espansionismo della Cina fosse destinato a non conoscere mai fine.

Al contrario, non appena si è palesato il crollo di Evergrande, a tutto il mondo è stato chiaro come la mole di investimenti nel settore delle infrastrutture – che sorreggono l’architettura dell’economia cinese del XXI secolo – fosse talmente sovradimensionata rispetto alla domanda in diminuzione costante, che l’economia cinese correva il rischio di una crisi sistemica.

Quando Evergrande, cioè il secondo più grande promotore immobiliare del Paese, ha presentato istanza di fallimento lo scorso agosto, da quel momento si è scatenato puntuale un effetto valanga che ha portato al default molti altri grandi costruttori cinesi – tra cui Kasia, Fantasia e Shimao Group – a causa degli insormontabili debiti contratti.

Per decenni, i più grandi gruppi di industriali avevano continuato bellamente a indebitarsi a causa della forzata espansione dell’economia nazionale cinese, dettata dall’alto ovvero dal Partito Comunista. Ma questo modello di crescita «a tutti i costi» che aveva sostenuto la spettacolare ascesa della Cina di Xi Jinping degli ultimi trent’anni, non poteva durare per sempre. E difatti a un certo punto si è semplicemente esaurito. Quando? Nel momento in cui l’offerta ha raggiunto il suo limite naturale per mancanza di domanda (cioè di persone).

Trent’anni fa i costruttori cinesi, esaltati e abbagliati dal salto di qualità di un Paese che aveva conosciuto il più rapido e sorprendente passaggio della storia da un’economia agricola a una industriale, avevano scommesso su un’affermazione definitiva della Cina e su un benessere destinato a durare. Ma loro, come forse i pentastellati, non avevano letto Gian Battista Vico e la sua importante lezione sui corsi e ricorsi storici. O più banalmente, non ricordavano che i cicli economici sono la sola previsione sempre affidabile in questo campo.

Così, senza troppi vincoli o pre-vendendo unità abitative, costruendo strade, ponti, aeroporti e in breve ridisegnando l’intero volto infrastrutturale del gigante asiatico, la Cina si è affermata come superpotenza pagando però in termini di lungo periodo, ritrovandosi con centinaia di aeroporti senza voli, autostrade deserte e intere città disabitate. Non appena le nascite sono diminuite drasticamente, ci si è resi conto che i futuri acquirenti di case e utenti delle strade sarebbero rimasti soltanto sulla carta e dunque non c’era la minima possibilità di compensare gli sforzi e far rientrare gli investimenti. Quando a questo crollo verticale si è unita la crisi pandemica, il danno era ormai compiuto. Ma l’ordine di scuderia di Xi Jinping è stato che la Belt and Road iniziative, varata già nel 2013, dovesse andare avanti comunque e a tutti i costi.

Ancora nel 2021 la «Via della Seta» era considerata da Xi l’unica soluzione possibile per ridare fiato all’industria delle infrastrutture: «Se non possiamo più costruire in Cina, esporteremo altrove questo modello» ripeteva come un mantra il leader cinese di fronte agli attoniti analisti di Shangai. Ma se in Africa questo sistema ha tenuto (sia pure di fronte investimenti cinesi con prestiti ai singoli Paesi a tassi da usura), nella più avveduta Europa nessuno si è fidato della «via cinese». Tranne appunto il Governo Conte, che ha lasciato in eredità a Draghi e Meloni questo nodo da sciogliere.

Quando però Xi Jinping si è reso conto della profondità della crisi, è corso ai ripari con una rapida quanto improvvisa giravolta politica: ha frenato di colpo il travaso di crediti concessi con troppo ottimismo e leggerezza dalle banche, lasciando così gli immobiliaristi del Paese a nudo e a caccia di liquidità, aggravando al contempo il rallentamento dell’economia globale e accrescendo la disoccupazione nazionale.

Anche per questo Pechino ha mancato il suo secondo grande obiettivo: aggirare tramite la Belt and Road Iniziative la supremazia marittima degli Stati Uniti, che ancora oggi controllano (direttamente o indirettamente) circa l’85% delle merci attraverso il canale di Suez, lo stretto di Hormuz, il canale di Panama e lo Stretto di Malacca. È infatti da qui che passa praticamente tutto il commercio mondiale contemporaneo. Vero è che passare dalle vie interne e dunque dalla terraferma è da sempre il Grande Gioco agito dagli imperi per bypassare l’egemonia delle potenze concorrenti. Ma non ha mai funzionato granché e, inoltre, la Cina non è una superpotenza da abbastanza tempo per poter assorbire senza conseguenze il fallimento di un disegno così ambizioso.

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Luciano Tirinnanzi