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ANSA/ALESSANDRO DI MEO
Economia

Ilva: il teatrino politico che può portare al disastro

C’è da chiedersi se Di Maio abbia una carta segreta o se vada avanti al buio. Perché Taranto e i lavoratori rischiano davvero grosso

Un minuto a testa a ciascuno dei 61 presenti (il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci e il presidente della provincia Martino Tamburrano non si sono presentati) per fare domande sull’abbondante serie di slide mostrata da ArcelorMittal allo scopo di illustrare il nuovo piano ambientale per Ilva, migliorato fino al limite: “Di più non possiamo fare”, hanno detto gli uomini della multinazionale anglo-indiana.

Il ministero dello sviluppo (ex industria) in via Veneto è trasformato in un teatro. E la scena è affollata di comparse. È questa la trasparenza secondo lo stile di Luigi Di Maio, è questo il “metodo Rousseau”, l’anticamera della democrazia diretta? Ma soprattutto si può affrontare così una vicenda chiave che riguarda il futuro del più grande stabilimento produttivo italiano?

La sfida

Il governo giallo-verde si è impegnato in una vera e propria demolizione di quel che hanno fatto i governi precedenti: dal Jobs Act alla Tav, dalla legge Fornero all’Alitalia è tutto un colpo di piccone. I primi guai si sono visti con il cosiddetto decreto dignità che ingessa il mercato del lavoro, ma forse i guai peggiori verranno con l’Ilva.

Di Maio ha lanciato una sfida ad Arcelor Mittal che ha prima di tutto obiettivi politici. Nell’ordine: mettere alla berlina Carlo Calenda dimostrando che si è accontentato “del primo che passa” (anche se è il più grande gruppo siderurgico dell’Occidente); titillare Michele Emiliano creando ancor più divisioni nel Pd (come se non ce ne fossero abbastanza); dividere i sindacati; lisciare il pelo al partito dei No (No Ilva, No Tap, No Xylella, tanto ai No Tva ci pensa il “cittadino Toninelli”). Soprattutto prendere tempo con continue sceneggiate in questo teatro delle vanità.

L'offerta di ArcelorMittal

Ma qual è l’obiettivo finale? Il ministro ha chiesto al gruppo anglo-indiano di dare di più sia sul piano ambientale sia su investimenti produttivi e occupazione. È nel suo diritto, se riesce a strappare più quattrini, più posti di lavoro e un risanamento più radicale, ben venga; oltre tutto potrà sempre vantare di aver ottenuto più del suo predecessore.

L’ArcelorMittal ha presentato un piano ambientale riverniciato nel quale si impegna a ridurre del 15% le emissioni di anidride carbonica per tonnellata di acciaio liquido prodotto, abbattendo rispettivamente del 30% e del 50% (rispetto alle migliori tecnologie europee disponibili) le polveri e le diossine derivanti dall’impianto sinterizzazione, grazie all’applicazione di filtri ibridi di ultima generazione.

In aggiunta, la multinazionale assicura che a Taranto, dal 2020 in poi, non ci saranno più wind days, i giorni del vento che trasportano le polveri dell’Ilva. Spazio anche alle tecnologie low carbon, previo studio di fattibilità, a piano concluso e per le tonnellate eccedenti i limiti produttivi ambientali. Un pacchetto ambientale al quale si aggiungono anche impegni sul fronte della ricerca (l’azienda fornisce maggiori dettagli sul centro di Taranto, sul quale saranno investiti 10 milioni) e dei rapporti con la comunità (si prevede di saldare le pendenze con l’indotto e sono previste aperture della fabbrica alla cittadinanza).

Cosa vuole Di Maio

A Di Maio non basta. Il governo, dice, "non ha fretta di assegnare l'Ilva al primo compratore che passa. Ho chiesto dei miglioramenti" ad ArcelorMittal "sugli aspetti ambientali e occupazionali, e per me non sono ancora sufficienti”. Poi alla radio, a Rai Uno, ha proclamato che “l’Ilva minaccia la vita dei cittadini di Taranto”. Dunque, ancora un rilancio in questa paradossale partita a poker alle spalle non solo di una città da anni in attesa di una chiara prospettiva, ma di 10 mila 900 dipendenti diretti più quasi altrettanti dell’indotto. Fino a quando si potrà tirare la corda?

Domande dietro le quali c’è il dubbio che il ministro intenda rimettere in discussione la vecchia gara e lanciarne un’altra (ci vorranno due anni), chiudere l’impianto, mettere in cassa integrazione straordinaria i lavoratori (non si capisce se verranno compresi anche quelli dell’indotto), puntare su una tecnologia con forni elettrici alimentati a gas, che significa cambiare completamente la struttura produttiva.

È quel che vuole, del resto, anche Emiliano, il presidente della regione Puglia. Un progetto dalla portata economica e sociale davvero enorme con costi molto elevati per i contribuenti.

Il futuro di Ilva

Che ne sarà nel frattempo dell’Ilva? L’azienda perde 30 milioni al mese, ci sono risorse fino a settembre, assicurate grazie all’ultimo prestito pubblico di 90 milioni di euro. C’è da chiedersi se Di Maio ha una carta segreta, un asso nella manica, o se va avanti al buio, se decide momento per momento.

La cordata che ha perso la gara, composta dal gruppo indiano Jindal, il siderurgico italiano Arvedi e la Cassa depositi e prestiti, oggi non c’è più. Emiliano dice che “è stata favorita”. Ma è difficile che si riformi anche perché Jindal ha già acquisito l’acciaieria di Piombino.

Si potrebbe immaginare la presenza di una nuova cordata per fare un impianto più piccolo con forni elettrici, affidando un ruolo fondamentale della Cdp. Ciò significa cambiare totalmente il modello produttivo e occupare meno della metà delle maestranze attuali. E il resto? Lavorerà nel parco giochi immaginato da Beppe Grillo?

Nel suo libro autobiografico (“Come un incubo e come un sogno”) Paolo Savona, oggi ministro delle relazioni europee, ricorda quando, come ministro dell’industria nel governo Ciampi, condusse “la battaglia in Europa per il IV forno di Taranto”. Scrive che avrebbe preferito dare l’Ilva ai Marcegaglia mentre Ciampi preferì i Riva.

Ma soprattutto indica il criterio che lo ha guidato in tutta quella difficile vicenda: “Se per politica industriale significa tenere aperte le aziende in perdita, ebbene questo governo non ha una politica industriale”. Lo disse in parlamento il 22 settembre 1993. Savona non ha cambiato idea, almeno a giudicare dall’enfasi con la quale pubblica questa affermazione. Forse potrebbe fornire qualche consiglio al suo più giovane collega Di Maio e dargli una mano affinché le perdite provocate da un teatrino politico non si scarichino su chi paga le tasse.  

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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