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(Mandel Ngan/Getty Images)
Politica

Il bilancio della presidenza Trump è positivo, ma non si può dire

Nel momento in cui la presidenza di Donald Trump volge al termine tra le polemiche post elettorali, è forse utile tentare un primo bilancio.


Mai amato dalla grande stampa, l'attuale inquilino della Casa Bianca si è fatto – in questi anni – un incalcolabile numero di nemici, non solo tra i democratici ma anche (e forse soprattutto) tra i repubblicani. Eppure, al di là del giudizio personale e delle caricature macchiettistiche che ne sono state fatte, è necessario cercare di comprendere la natura del "fenomeno Trump": un fenomeno che ha inesorabilmente segnato – nel bene o nel male – la storia politica statunitense.

Da molti semplicisticamente descritto come un radicale di destra, l'attuale presidente americano si inscrive in realtà nella ben più complessa cornice politico-culturale del jacksonismo: è in questo senso che vanno, per esempio, lette la sua anima populista, la disintermediazione nei confronti dell'elettorato e – soprattutto – la sua energica carica antiestablishment. D'altronde, non solo Trump non può essere considerato un incidente di percorso nell'intero arco della storia americana, ma – più nello specifico – è stato un prodotto della crisi della globalizzazione. Una crisi profonda, che si è dipanata in varie tappe: dalla guerra in Iraq (sotto il profilo politico-militare) alla Grande Recessione (sotto il profilo economico-finanziario). Per quanto paradossale possa a prima vista apparire, Trump è sorto dal medesimo brodo di coltura da cui emerse Barack Obama nel 2008: non dimentichiamo infatti che l'allora semisconosciuto senatore dell'Illinois si fosse imposto sulla scena, portando avanti una linea antisistema, che mirava a colpire alcuni importanti esponenti dell'establishment americano dell'epoca (da Hillary Clinton a John McCain). In tal senso, nel 2008, Obama beneficiò enormemente della crisi della globalizzazione e venne eletto proprio grazie a un messaggio di critica nei confronti della politica estera ed economica dei Clinton e dei Bush.

Una situazione non poi così dissimile da quella che avrebbe portato, nel 2016, Trump alla Casa Bianca. Il magnate newyorchese fece campagna elettorale promettendo di porre un freno alle cosiddette "guerre senza fine" in cui gli Stati Uniti erano rimasti impelagati, impegnandosi inoltre a difendere i colletti blu impoveriti della Rust Belt e a far tornare a crescere il settore manifatturiero americano. In tal senso, Trump puntava molto sulla delusione suscitata dallo stesso Obama: un Obama che, pur partito come candidato antisistema, si era tuttavia gradualmente lasciato assorbire da quello stesso establishment che aveva promesso di combattere. Nonostante alcuni importanti provvedimenti nei primissimi anni della sua presidenza (come il Recovery Act o il salvataggio dell'industria automobilistica), l'allora inquilino democratico della Casa Bianca si era lasciato coinvolgere nei disastrosi conflitti di Libia, Siria e Yemen. Tutto questo, mentre anche sotto il profilo socioeconomico aveva finito col mostrare alcuni evidenti limiti. La virata ambientalista gli alienò il sostegno dei lavoratori del settore carbonifero, mentre – sul piano del commercio internazionale – non mutò la politica marcatamente liberista di Bill Clinton e di George W. Bush.

È esattamente qui che Trump ha cercato di inserirsi. In questi quattro anni, l'attuale presidente ha rinegoziato con successo il North American Free Trade Agreement, avviando inoltre uno scontro tariffario con Pechino. Uno scontro tariffario che si è attirato le critiche di molti esperti, ma – rispetto a cui – va comunque sottolineato un elemento: quel duello Trump – nel bene o nel male – lo ha ingaggiato per cercare di tutelare gli interessi della classe operaia di Michigan, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin, alienandosi per questo ulteriormente le simpatie della Silicon Valley. Quella Silicon Valley che non ha mai auspicato una linea dura nei confronti della Cina, per poter continuare tranquillamente a delocalizzare la propria produzione. È esattamente questo elemento che devono tener ben presente quanti dicono oggi che Joe Biden difenderà gli operai della Rust Belt, perché – contrariamente a Trump – il presidente entrante ha ricevuto cospicui finanziamenti in campagna elettorale proprio dai big del web. Finanziamenti che è molto improbabile possano rivelarsi, per così dire, a fondo perduto.

Venendo poi alla politica estera, l'attuale inquilino della Casa Bianca ha cercato di conseguire dei risultati esattamente laddove il suo predecessore aveva fallito. In primis, ha evitato di lanciare gli Stati Uniti in nuovi conflitti, resistendo talvolta ai falchi interni alla sua stessa amministrazione (si pensi che l'ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, spinse per interventi militari tanto in Venezuela quanto in Iran). Inoltre Trump ha cercato di abbandonare la politica di Obama in sostegno ai movimenti legati all'Islam politico (a partire dai Fratelli Musulmani), attraverso una stretta convergenza con Arabia Saudita ed Egitto. Tutto questo, senza infine dimenticare il tentativo di distensione con la Russia: una linea sostanzialmente fallita a causa delle fortissime resistenze interne all'establishment di Washington. Una linea che il presidente ha cercato di perseguire proprio in vista di una maggiore stabilizzazione dello scacchiere mediorientale: uno scacchiere che – gli va riconosciuto – appare oggi comunque più stabile di come l'aveva trovato quattro anni fa, a seguito delle cosiddette "primavere arabe". Trump ha del resto sempre nutrito scetticismo nei confronti dell'interventismo bellico e dell'ingegneria istituzionale, caldeggiati da tanta parte dell'establishment di Washington.

Se vogliamo, uno dei principali problemi di questa presidenza è che Trump abbia dovuto costantemente fare i conti con i settori più riottosi del suo stesso partito. Ricordiamo infatti che l'attuale inquilino della Casa Bianca abbia alcuni punti non esattamente in comune con i repubblicani ortodossi. Se su Corte Suprema, aborto e II Emendamento è effettivamente in linea con i conservatori, non altrettanto si può dire su determinate questioni economiche: dai dazi agli investimenti pubblici. E proprio sugli investimenti pubblici Trump si è ritrovato azzoppato. Nel 2017, il Congresso ha approvato una importante riforma fiscale, che ha tagliato l'aliquota per le imprese dal 35% al 21%: una vittoria del presidente, che – in campagna elettorale – aveva promesso addirittura una riduzione al 15%. Il punto è che, nell'ottica originaria di Trump, la riforma fiscale si sarebbe dovuta accompagnare a una riforma infrastrutturale basata su cospicue iniezioni di denaro pubblico. Se i repubblicani hanno spalleggiato la defiscalizzazione, non hanno tuttavia seguito il presidente sul fronte infrastrutturale, considerando la sua idea come troppo statalista e affine al New Deal di rooseveltiana memoria. Proprio per questo tale proposta, così centrale nella campagna elettorale di Trump nel 2016, si è rapidamente arenata, finendo nel cassetto. Un duro colpo per il presidente, che non ha potuto così realizzare un aspetto fondamentale del proprio programma economico. Se infatti durante il suo mandato il tasso di disoccupazione (prima della pandemia) era sceso ai minimi dalla fine degli anni '60, è altrettanto vero che la qualità dei posti di lavoro non fosse mediamente elevatissima. E, in questo senso, la riforma infrastrutturale avrebbe potuto essergli di grande aiuto.

In tutto questo, non vanno comunque taciuti gli errori strutturali che è stato lo stesso Trump a commettere. Innanzitutto non ha compreso l'importanza di creare un consenso dal punto di vista ideologico e accademico: un elemento che, al contrario, negli anni '80 Ronald Reagan aveva ben chiaro. In secondo luogo, l'altro imperdonabile errore del presidente americano è stato quello di non aggredire per tempo i colossi della Silicon Valley attraverso la legislazione antitrust. Dopo la sua vittoria nel 2016, ci si attendeva che avrebbe potuto agire come Teddy Roosevelt contro la Standard Oil: non è andata così. Certo: Trump ha spesso polemizzato con i big del web ma, in definitiva, non ha adottare delle misure che potessero realmente intaccare il loro strapotere. E, guarda caso, ne ha pagato le conseguenze proprio nell'ultima campagna elettorale, quando Twitter e Facebook hanno utilizzato la propria decisiva influenza mediatica per contribuire ad azzopparlo.

Nonostante questi limiti, Trump è comunque riuscito in questi anni ad espandere significativamente la base del Partito Repubblicano: ha infatti mantenuto la presa sugli operai della Rust Belt, incrementando inoltre notevolmente il sostegno da parte delle minoranze etniche (a partire da quella ispanica). Un patrimonio elettorale di cui l'elefantino non potrà in futuro fare a meno e che sconfessa una certa narrazione che ha sovente dipinto il presidente come un becero razzista. Per ora, il futuro resta incerto. Non è ancora chiaro se Trump si ricandiderà per il 2024 né se l'elefantino abbia intenzione di preservare la sua eredità politica. Resta però un fatto: e cioè che – nonostante limiti ed errori – l'attuale presidenza sia alla fine migliore di come è stata sin qui spesso faziosamente raccontata.

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Stefano Graziosi