La burocrazia e il governo travolgono la scuola, eppure basterebbe coinvolgere i privati
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La burocrazia e il governo travolgono la scuola, eppure basterebbe coinvolgere i privati

Il problema della riapertura delle scuole mostra insieme tutte le debolezze di lungo periodo dello Stato italiano e tutta l'approssimazione gestionale del governo nel breve termine.


Si è discusso negli ultimi giorni degli insegnanti che non intendono sottoporsi ai test sierologici. C'è sicuramente una parte del corpo docente che difetta di etica e di spirito di servizio e che gode dell'eccessiva rendita fornita dal posto pubblico, ma il problema non è solo questo. Il problema è che il ritorno a scuola, con quello che la pandemia comporta in termini di misure preventive, è ingestibile in edifici catapecchie e con gli espedienti legulei del governo, come considerare «congiunti» gli alunni o non far rispettare le distanze nel trasporto pubblico se il percorso è inferiore a quindici minuti. Misure e regolamentazioni minuziose e ridicole, che generano più incertezza che sicurezza.

A questo si somma il problema dei banchi scolastici, acquistati dal governo attraverso una gara pubblica che difetta di trasparenza e rispetto ai quali, in particolare a quelli con le rotelle, resta poco chiara l'effettiva necessità o meno ai fini della prevenzione sanitaria. E qui si annida un ulteriore paradosso di questo governo, sempre attento a schermare le proprie decisioni politiche dietro le indicazioni del comitato tecnico-scientifico ma che in questo caso ha preferito agire seguendo i piani del commissario straordinario per l'emergenza Domenico Arcuri. Sulla scuola, dunque, i desiderata della burocrazia sembrano aver prevalso sulle evidenze scientifiche, avviando una tortuosa e costosa procedura d'acquisto.

Le difficoltà organizzative della riapertura scolastica evidenziano anche un rapporto sempre più complesso e farraginoso tra lo Stato e le regioni, che gestiscono il trasporto locale. Il governo è parso incapace di imporre la propria volontà e si è trovato prigioniero delle differenti posizioni degli enti locali, che non intendono assumersi le responsabilità politiche di regole incerte e difficilmente controllabili disegnate dagli uffici ministeriali. È la coda di quanto già emerso durante la prima fase della pandemia: con le regioni che si muovevano a macchia di leopardo e spesso remavano, non senza qualche ragione, nella direzione contraria a quella espressa da Roma. Una spaccatura che mostra quanto sia oramai disfunzionale il regionalismo a metà previsto dalla Costituzione italiana e di come le competenze dovrebbero essere ridisegnate e divise in maniera più rigida. Ma tutte le forze politiche continuano ad ignorare il problema, schierandosi a seconda delle convenienze con lo Stato o con le Regioni. Se in questo caso non si perverrà ad un accordo che permetta al sistema di funzionare, saranno le famiglie a scontare direttamente questo fallimento.

Da ultimo, una questione di politiche pubbliche. L'unica risposta strutturale arrivata dal governo riguarda i concorsi pubblici per l'assunzione di nuovi insegnanti (e la stabilizzazione di quelli precari). Uno schema clientelare che si ripete ad ogni nuovo esecutivo. Non è chiaro, tuttavia, quale sia il reale fabbisogno di professori in Italia, un paese che sconta un costante declino demografico e se una scuola moderna possa funzionare con meno personale. I governi non si pongono queste domande e continuano a preferire la spesa per i docenti a quella infrastrutturale. Il risultato è un aumento dei docenti senza adeguamento delle strutture e dei plessi scolastici, troppo spesso inadeguati, invecchiati e pericolanti. A cui si aggiunge la mancanza di laboratori, macchinari, computer e strumenti per offrire un'istruzione moderna. Insomma, come sempre si cerca la strada facile, quella del consenso, con la promessa di fare vincere un «posto a vita» a migliaia di persone ogni qualche anno. Ma la scuola non può e non deve essere un ammortizzatore sociale, bensì il luogo dove si formano saperi e competenze per irrorare la società del futuro. Vista la penuria di capitali e la miopia della politica non resta che un'ultima provocatoria e modesta proposta. Perché lo Stato, in perenne deficit di risorse, non sceglie di aprirsi ai privati per migliorare la formazione e le strutture scolastiche? Nel mondo è pieno di virtuosi esempi in cui coesistono pubblico e privato nelle scuole, con una governance mista che coinvolge docenti, genitori e investitori. La società del futuro conterà sempre di più sulle «fabbriche del sapere» e anche per il mondo imprenditoriale si profilano importanti opportunità sul fronte educativo. Questa svolta permetterebbe non soltanto il miglioramento delle strutture, ma anche di legare maggiormente alla realtà le scuole attraverso un rapporto più forte con il mondo del lavoro. Nessuno pensa ad una liberalizzazione scolastica ex abrupto, ma ad un sistema sperimentale e incrementale che magari parta dalle aree e dalle situazioni più disagiate. Nel caso degli ospedali i privati hanno dato una grande mano nel corso dell'emergenza, perché non permettere di farlo anche con la scuola?

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Lorenzo Castellani