​Miniere di fosforo le miniere a Laâyoune, Sahara occidentale,
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Inchieste

Fosforo, la risorsa diabolica per l'agricoltura

Fondamentale per i fertilizzanti, in forma di minerale si concentra in una regione contesa dell’Africa, mentre altrove è in esaurimento. Un saggio affascinante lo racconta, tra esperimenti di alchimisti, tensioni strategiche e urgenze ecologiche.

Sui contadini europei che protestano contro la politica agricola dell’Unione si allunga una minaccia ben più grave dei limiti all’uso dei pesticidi o della concorrenza dei Paesi extra Ue. Una crisi che metterà in pericolo non solo il futuro delle loro attività, ma addirittura il destino dell’alimentazione umana. È la fine del fosforo. Elemento chimico numero 15 della tavola periodica, indicato con la lettera «P», il fosforo non suscita alcun interesse nell’opinione pubblica. Non ha la stessa notorietà del petrolio, dell’uranio o dell’idrogeno, probabilmente nessuno si ricorda di aver letto un articolo che ne parla. Insomma, se ne sa ben poco. Tranne che negli ambienti industriali che si occupano di fertilizzanti: perché insieme all’azoto e al potassio è uno dei componenti chiave necessari per realizzare i prodotti chimici che nutrono la terra. E che permettono di sfamare i 7,8 miliardi di abitanti umani del pianeta. Ma davvero il fosforo sta per finire? Beh, non è proprio così: come nel caso del petrolio, più volte si è parlato di «picco», di quel momento cioè in cui i giacimenti iniziano a esaurirsi. E per il fosforo alcuni scienziati sostengono che le miniere si svuoteranno entro la fine del secolo, mentre altri sono più ottimisti. Quel che è certo è che questo prezioso elemento non è infinito, prima o poi verrà consumato del tutto e nel frattempo un solo Paese ne potrà controllare il mercato grazie alle sue gigantesche riserve.

Ad accendere l’attenzione sul fosforo è un libro straordinario scritto dal giornalista americano Dan Egan, due volte finalista al premio Pulitzer e vincitore del Los Angeles Times Book Prize. Se l’obiettivo era rendere affascinante e interessante la storia di questa risorsa poco conosciuta, il saggio ci riesce benissimo. A partire dal titolo: L’elemento del diavolo. Che c’entra Lucifero? C’entra, e per scoprirlo bisogna addentrarsi nell’oscuro laboratorio di un alchimista di Amburgo. Correva il 1669 e Hennig Brandt era alla ricerca, come tanti suoi colleghi, della Pietra filosofale per ricavare l’oro dai metalli vili. Convinto che tracce della mitica Pietra potessero celarsi all’interno del corpo umano, cucinò la propria urina fino a produrre delle pepite bianche dal bagliore ammaliante. Battezzò la sua scoperta «fosforo» dalla parola greca phosphoros, traducibile con «portatore di luce». Ma anche la parola Lucifero ha lo stesso significato (e destino vuole che Amburgo abbia dovuto subire i diabolici effetti del fosforo sotto le bombe incendiarie della Seconda guerra mondiale).

Per anni la scoperta di Brandt rimase poco più di una curiosità sfruttata per ammaliare i re e le loro corti e rappresentata in un quadro di Joseph Wright of Derby. Fino a quando non ci si rese conto degli effetti che il fosforo aveva sulle coltivazioni. Per nutrire i campi, fin dalla notte dei tempi gli agricoltori hanno usato il concime animale. Ma, come ricorda Egan, quando nel tardo Settecento, con lo scoppio della Rivoluzione industriale, la popolazione europea cominciò ad aumentare a dismisura, semplicemente non ci fu abbastanza concime animale per mantenere produttivi i suoli degradati dall’ipersfruttamento. Il fenomeno colpì in modo particolare l’Inghilterra. Questo costrinse i contadini britannici a cercare altre fonti di fertilizzante che non fossero le feci. I trucioli di scarto delle fabbriche produttrici di manici di coltello e bottoni realizzati in osso animale costituivano una forma di fertilizzante particolarmente popolare a inizio Ottocento, tanto che di lì a non molto le ossa degli animali cominceranno a esaurirsi in Inghilterra. Il fosforo infatti è fondamentale per il metabolismo degli animali, e lo si trova nei loro resti e nelle feci. Gli inglesi, e probabilmente anche altri popoli europei, iniziarono ad andare a caccia di ossa.

Anche di uomini e donne. Dal continente arrivavano resti umani in tale numero e con una tale regolarità che nell’Inghilterra orientale era stato aperto uno speciale stabilimento adibito alla «macinazione delle ossa» per far fronte alle importazioni. Nel 1822 una persona che si firmava solo «soldato vivente» scrisse sul quotidiano Morning Post di Londra: «È stato ormai accertato che un soldato morto è un articolo commerciale di enorme valore». Il chimico Justus von Liebig dichiarò scandalizzato che «la Gran Bretagna ha rastrellato i campi di battaglia di Lipsia, di Waterloo e della Crimea; ha consumato le ossa di molte generazioni accumulate nelle catacombe della Sicilia. Aleggia come un vampiro sul grembo dell’Europa». Alle ossa ricche di fosforo si aggiunse un’altra sostanza di origine organica: il guano. In particolare quello proveniente dal Sudamerica. Nel suo saggio Egan riferisce che nel 1810 arrivarono in Inghilterra oltre 2.700 tonnellate di feci essiccate di uccelli marini sudamericani. L’anno ancora successivo ne vennero importate più di 180 mila tonnellate. Il guano rappresentava un netto passo in avanti rispetto alle ossa: era ricco non solo di fosforo, ma anche di azoto e potassio, i tre principali elementi dei fertilizzanti chimici che utilizziamo ora. L’umanità però non poteva contare solo su ossa e guano. Doveva riuscire a scovare un altro modo per ricavare il fosforo. Un aiuto fondamentale lo diede Liebig che nel 1840 rese popolare quella che divenne nota come la «teoria della nutrizione minerale delle piante», secondo la quale non era necessario ricavare i fertilizzanti da qualcosa che fosse vivo. Si poteva partire da quegli elementi privi di vita che sono le materie prime. L’alba della rivoluzione dei fertilizzanti chimici era scoccata.

Si scoprì che in alcune aree del pianeta c’erano grandi quantità di rocce ricche di fosforo. Furono aperte miniere negli Stati Uniti, in Australia, Brasile, Cina, Finlandia, Israele, Giordania, Kazakistan, Messico, Perù, Russia, Arabia Saudita, Senegal, Sudafrica, Siria, Togo, Vietnam. Ma le più grandi sono in Marocco e nel conteso Sahara occidentale che complessivamente ospitano circa il 70-80 per cento delle riserve mondiali. Si tratta di un’iper-concentrazione di una risorsa indispensabile a livello globale, il più importante quasi-monopolio della storia economica. Secondo l’autore del libro, «che un solo Paese, anzi essenzialmente un solo uomo - il re del Marocco - possa controllare una tale quantità di qualcosa di cui ogni comune mortale ha disperatamente bisogno è una ricetta per l’instabilità globale, se non peggio». Ma questa non è l’unica coda avvelenata dell’«elemento del diavolo». C’è anche quello che viene definito «il paradosso del fosforo»: nello stesso momento in cui dilapidiamo le nostre sempre più preziose riserve di roccia contenente fosforo estraibile, sovraccarichiamo di fosforo le nostre acque.

Negli Stati Uniti circa due milioni di aziende agricole operano su circa il 40 per cento della superficie del Paese. Tutte usano i fertilizzanti di origine chimica. A cui si aggiungono alcuni tipi di detersivi ricchi di fosfati. Risultato? Il fiume Mississippi trasporta nel golfo del Messico un quantitativo annuo di circa 150 mila tonnellate di fosforo, che stimolano un’esplosione estiva di fitoplancton; fitoplancton che, come nel lago Okeechobee o nel lago Erie, infine muore, e nel decomporsi sottrae così tanto ossigeno dall’acqua che sul fondo del mare non sopravvive quasi niente. Le acque vengono invase da alghe che uccidono la vita e sono pericolose per l’uomo. Stiamo inondando il mondo di fosforo, con effetti in alcuni casi disastrosi. La soluzione è ridurre al minimo la dispersione di fosforo nell’ambiente e imparare a estrarre quello che confluisce negli impianti di trattamento delle acque reflue per trasformarlo in cibo per le piante sicuro e privo di contaminanti, come quello prodotto da una moderna fabbrica di fertilizzanti. Meno inquinamento e fine del rischio di rimanere a secco. Ma ci vuole una vera rivoluzione.

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Guido Fontanelli