Giammetta, il filosofo che conosceva l'umanità
Costume

Giammetta, il filosofo che conosceva l'umanità

Studioso di Nietzsche e Schopenhauer, ha saputo calare la sua cultura nella vita. Il migliore insegnamento di un vero maestro.

Mentre ricordo Sossio Giametta, l’ultimo pensatore del nostro tempo, mancato lo scorso 15 gennaio, ritrovo una fotografia di 40 anni fa dove sono, giovane, tra Federico Zeri e Piero Buscaroli, a Ferrara, a Palazzo dei Diamanti, per l’inaugurazione della mostra di Fabrizio Clerici. Riesuma queste immagini l’allievo di Clerici che allora era un bambino: Eros Renzetti. Già lucido allora, ripercorre momenti ormai mitici del nostro passato. E la mostra di Clerici a Ferrara, con Fellini, Sciascia, Montanelli, Soavi, Guarienti, certamente lo fu. Ma ora vorrei dire qualcosa di Sossio, del nostro ultimo incontro, nella sua piccola casa, a Milano, dove andai a trovarlo con un assistente incredulo, davanti a quel vecchio festoso e senza retorica, desideroso di vedere i suoi prossimi libri pubblicati dalla Nave di Teseo. Ci univa l’antica amicizia per il più originale interprete moderno di Friedrich Nietzsche e Arthur Schopenhauer, Anacleto Verrecchia, un altro scomparso, che avevo conosciuto a Torino, alle prime edizioni del Salone del Libro, e nella bella libreria dell’editore Fogola, nelle stanze di tante presentazioni ed emozioni. Schopenhauer mi sembra il pensiero che unisce Giametta, Verrecchia, Zeri e Buscaroli.

Quella considerazione che «chi desidera conoscere l’umanità nella sua essenza intima, nella sua idea, sempre identica in tutte le sue manifestazioni e i suoi sviluppi, ne troverà nelle opere degl’immortali grandi poeti un’immagine ben più fedele e più netta che non negli storici», ha guidato la mia ansia di conoscenza di poeti e artisti anche i più marginali, i più remoti, dove si rivela la condizione di disagio nella difficoltà della vita, nella insoddisfazione, nella inadeguatezza davanti alle proprie aspirazioni, ambizioni, di cui eravamo consapevoli. Giametta l’aveva risolta con una semplicità sconcertante: «Troppa parte della filosofia è oggi fatta di chiacchiere (…) credo di essere dotato di un pensiero umile. L’umiltà consiste nell’investirsi delle esigenze degli uomini comuni e nel parlare il linguaggio chiaro, nel seguire la logica delle cose sotto la logica delle parole e nell’onorare come mia maestra suprema non l’erudizione, ma la vita».

Ho sempre perseguito lo stesso obiettivo; ed era anche, nella sua straordinaria attività, la forza di Buscaroli che scriveva con grande chiarezza, e curava, per Fogola, una «piccola biblioteca per spiriti indipendenti, curiosi, amanti dell’imprevisto, del raro, insofferenti dei loro tempi». Incontrarlo, nei lunghi anni di una amicizia irta e spigolosa, era sempre fonte di avventurosa conoscenza. Così fu, in quei giorni, a Ferrara dove lui, che amava Bach e Beethoven, venne a incontrare Clerici, Sciasca e Zeri davanti al Sonno romano, tra le opere più evocative del pittore. Buscaroli era un uomo ferito, aveva vissuto la sua giovinezza per riscattare suo padre Corso da false accuse. Corso fu federale di Imola sotto la Repubblica Sociale e, nel 1945, venne ingiustamente condannato per concorso morale in omicidio. Morì senza giustizia nel 1949. E fu il figlio a scagionarlo dopo la morte. Piero Buscaroli studiò giurisprudenza per fare l’avvocato in un solo processo, quello che ristabilì la verità, cioè l’innocenza del padre. A temperamenti così risoluti va prima di tutto la nostra riconoscenza. Stare dalla parte sbagliata è difficile.

Ripensare ora a personalità così inattuali nel prevalere di «pensieri deboli», ci fa tornare ai grandi pensatori che ispirarono e coinvolsero gli amici che ho ricordato. In particolare Sossio Giametta che, negli anni in cui Giorgio Colli e Mazzino Montinari si applicavano alla prima edizione critica delle opere di Nietzsche, proposta a Einaudi attraverso Cesare Pavese già nel 1945 e ricusata nel 1961 per essere, poi, a partire dal 1964, pubblicata da Adelphi, ha l’incarico di tradurre Umano troppo umano. Contestualmente, e nel pieno della vita, il massimo impegno di Giametta è per Schopenhauer; e così lo racconta: «Quando, nella prima metà degli anni Sessanta, Giorgio Colli mi affidò la traduzione del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, ero lontano dall’immaginare quale onore mi facesse e quale fortuna mi capitasse. Solo molto più tardi avrei capito che Colli, pur ritenendosi una reincarnazione di Nietzsche, pur insegnando Platone e traducendo Aristotele e Kant, pur eccependo fra i disprezzati moderni a favore dei soli Giordano Bruno e Spinoza e pur aggirandosi fra manipoli di agguerriti presocratici, aveva un Busenphilosoph, un filosofo del cuore, quasi un filosofo segreto, di riserva, per il quale anche guardava a Oriente. Vi ricorreva parsimoniosamente e quasi con pudore, ma nei casi critici non esitava a tirarlo fuori, a sbandierarlo e a brandirlo nel modo più deciso e con pieno abbandono emozionale. Era Schopenhauer, il filosofo che l’aveva scosso in gioventù e conquistato per la vita, come secondo lui accadde a Nietzsche, al quale, appunto come seguace di Schopenhauer, nega originalità propria (due posizioni che col tempo avrei sempre più capite e fatte mie)».

È una rivelazione importante sullo studioso che aveva tolto il velo delle falsificazioni sul pensiero di Nietzsche. Ma è proprio in Nietzsche che Giametta trova la ragione di questo convergere su Schopenhauer. Nell’aforisma 271 di «opinioni e sentenze diverse», intitolato Ogni filosofia e filosofia di un’età, Nietzsche dice: «La filosofia di Schopenhauer rimane l’immagine rispecchiante la giovinezza ardente e melanconica - e non è un pensiero per persone adulte». È bene anche ricordare che Schopenhauer iniziò a scrivere Il mondo come volontà e rappresentazione a 26 anni. Mi viene da pensare che questa mia rievocazione dei giorni di Ferrara, con gli amici sopra ricordati, non sia solo l’occasione per tornare ai loro pensieri, alle loro affinità, all’amore per il mondo antico che univa Zeri e Clerici, Buscaroli e Guarienti, ma un singolare stimolo che la morte di Sossio Giametta mi ha dato a ripercorrere il tempo della giovinezza, l’entusiasmo di quei giorni, la certezza di potermi misurare con il pensiero di amici perduti. Come se l’unico bene e il più fragile, il più appassionato e il più entusiasmante, fosse la giovinezza. Quando i pensieri crescono, si affermano e non sono disturbati dai dubbi.

Mi restava solo Giametta, dopo la morte di tutti, ultimo Carlo Guarienti. Ed era il tramite con gli altri, di tempi e generazioni lontani. Con lui mi sembrava ancora di parlare con Verrecchia, con cui i rapporti erano stati stretti e intensi, negli incontri periodici a Torino, nelle telefonate frequenti. Sossio e Anacleto avevano straordinarie affinità, e dolcezza, ironia, entusiasmo. Pensare oggi di ritrovarlo, di tornare a lui andando dove era nato, in Ciociaria, a Vallerotonda (quante volte mi aveva parlato del bombardamento degli inglesi a Cassino: un incubo vissuto per Verrecchia), mi fa risalire alla sua singolarità, alla sua originalità, ai suoi pensieri rari, oggi raccolti nel libro Meglio un demonio che un cretino, a cura di Dario Stanca. Tra questi, memorabile: «Dio non cercatelo nel cuore dell’uomo, ma piuttosto nel canto degli uccelli, nel silenzio del bosco, negli occhi di un camoscio o nello scrosciare di un fiume».

I più letti

avatar-icon

Vittorio Sgarbi