La Repubblica dell’estremismo
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La Repubblica dell’estremismo

Cresce l’uso dell’insulto, della parola violenta come arma politica,  e anche della deformazione della verità.  Una deriva ispirata anche da giornali come «La Repubblica». Il commento di Giampaolo Pansa

Caimani? Bestie orrende, sporche, che sguazzano nel fango, capaci di qualsiasi infamia. Il martedì 12 marzo 2013, Ezio Mauro, direttore della Repubblica, ha dato questo titolo a un suo articolo di fondo. Dedicato ai parlamentari del Pdl che manifestavano nel palazzo di giustizia milanese. Un testo secco, appena 44 righe. Dove apparivano parole come «ordalìa finale», «abusi», «corruzione», «impunità», «identificazione fanatica», «avventurismo berlusconiano», «un partito trasformato in un bullo collettivo, come se la democrazia fosse una taverna».

Qualcuno si è stupito della scelta di Mauro. Pensando che il numero uno della Repubblica avesse infranto una regola non scritta, ma quasi sempre osservata un po’ da tutti. La norma dice che gli articoli di fondo dei giornali d’informazione non devono mai essere invettive furenti, una patologia da lasciare agli organi di partito. Possono anche rivelarsi aspri, però hanno l’obbligo di spiegare ai lettori quanto avviene in Italia e nel mondo, sia pure esprimendo l’opinione personale di chi scrive. Ma, al contrario di qualche collega, io non mi sono stupito di quella volgarità mauresca.  

Penso di conoscere bene Ezio. Grande professionista e grande fazioso. Un eterno giacobino in doppiopetto. Incurante del rischio che un quotidiano di rango possa alimentare il male che corrode l’Italia di oggi: l’uso della parola violenta, il ricorso all’insulto come arma politica, la deformazione della verità quando conviene alla tua fazione. Sono in molti, tanto a sinistra che a destra, a subire il fascino di un lessico aggressivo. Senza domandarsi quali conseguenze possa avere dentro una comunità assai più ampia dei lettori di un giornale. Per vecchia abitudine professionale leggo 11 quotidiani al giorno. E mi sono reso conto che il tempo impiegato in questo lavoro si va riducendo di continuo. Sino a un anno fa, mi occupava l’intera mattinata. Adesso sbrigo la faccenda in un paio d’ore. Il motivo, almeno per me, è semplice: non imparo più niente dalla carta stampata che continuo ad acquistare.
Il notiziario è inutile e spesso già superato da quanto ho appreso dalla radio, dalla televisione e dalla baraonda del web. Le opinioni offerte dai cervelli delle singole testate spesso sono tutte uguali. Riflettono il pensiero unico di quel certo giornale. I suoi umori. Le sentenze già decise. Gli estremismi consolidati. Un guaio che l’editore della Repubblica, Carlo De Benedetti, ammise quando gli spiegai perché me ne andavo dal suo gruppo, dopo averci lavorato per trent’anni.

In preda a un soprassalto di realismo, l’Ingegnere mi confessò: «La Repubblica è diventata noiosa. Se Silvio Berlusconi fa cucù ad Angela Merkel, per cinque giorni Mauro stampa cinque editoriali scritti da cinque opinionisti diversi che sfornano il medesimo articolo». Il fondino sui Caimani aveva almeno un pregio: era corto e scritto dal direttore, quindi non rappresentava un costo in più.
Ma anche le invettive telegrafiche fanno scuola. Quando un giorno rifletteremo sul clima fetido dell’Italia 2013, ci renderemo conto pure delle responsabilità di Mauro. Ha fallito nell’intento di guidare dall’esterno la sinistra, poiché quest’area politica si è frammentata in tante parrocchie, che non obbediscono a nessun giornale-partito. Tuttavia il direttore della Repubblica si è rivelato formidabile nell’aizzare i suoi lettori rossi, nell’arroventarne gli umori, nell’armarli di un linguaggio indecente che neppure la vecchia gestione di «Barbapapà» Scalfari aveva eretto a sistema.

L’insulto rabbioso rischia di diventare il mezzo d’espressione più frequente della sinistra in questo 2013. Per un succedersi di circostanze che meritano di essere ricordate, poiché avranno effetti di lunga durata. Capaci di pesare nella vita di tutti noi, cittadini di una nazione alle prese con il ciclo più nero dal 1945 in poi.

Alla vigilia del voto di febbraio, il Pd di Pier Luigi Bersani si era convinto di avere la vittoria in tasca. La stessa sicumera aveva il suo alleato, il partito neocomunista di Nichi Vendola. E forse anche il partitino del magistrato Antonio Ingroia, in corsa sul versante del radicalismo rosso. Tutto a posto? Sì, ma niente in ordine. L’imprevista rimonta del centrodestra ha dimezzato la vittoria democratica. Poi è emerso il boom di Beppe Grillo che ha cancellato la maggioranza al Senato. Morale della favola: il crac della strategia bersaniana, costretta ad affidare la guida del Parlamento a due personaggi mai prima tenuti in conto e del tutto inesperti. Infine l’esplodere di un dissenso interno al Pd, pronto a diventare un conflitto aperto tra l’apparato bersaniano e il subpartito di Matteo Renzi.

Questo succedersi di disgrazie ha reso isterico gran parte del progressismo democratico. Ma l’isteria di solito si accompagna all’anarchia. Le gerarchie si dissolvono, il vertice scopre di non avere più autorità sui livelli inferiori, il disordine prevale sull’ordine e tutto diventa incerto. La situazione attuale del Pd è la raffigurazione perfetta di un sistema privo di certezze e vicino a incrinarsi.
Emergono domande che non trovano risposta. Qual è la strategia di Renzi? I giovani turchi hanno la forza e il coraggio di assalire il quartier generale? Bersani riuscirà ad annettersi una quota dei cinquestelle? Che cosa medita il colosso della Cgil, al momento silenzioso dopo tante invettive? Come verrà risolto il rebus del governo da costituire? Chi sarà il nuovo capo dello Stato?
Tutti i partiti invocano la trasparenza, eppure procediamo nel buio. Si accendono i fuochi fatui dei media, improvvisi falò che alterano i rapporti. Il piccolo diventa grande e la fantasia supera la realtà. I persuasori televisivi acquistano un peso assurdo. Una requisitoria di Marco Travaglio in casa Santoro è più importante di un discorso di Bersani a Montecitorio. Lo stesso vale per un’«Amaca», la rubrica di Michele Serra sulla Repubblica.

Le ospitate da Fabio Fazio contano più delle consultazioni al Quirinale.
Il tono dei programmi della nuova Sette di Urbano Cairo diventa un enigma  primario. Giovanni Floris chi inviterà a Ballarò? È vero che Maurizio Crozza si prepara a imitare la nuova presidente della Camera? Lucia Annunziata è «impresentabile» quanto i big del Pdl che lei ha sbertucciato? Per arrivare alle scomuniche surreali: Renato Schifani è un mafioso, meglio regalare il Senato a un giustiziere soft alla Piero Grasso.

Ci stiamo dilettando con le cianfrusaglie avvelenate. Nel frattempo dimentichiamo che i mercati finanziari guardano con sospetto l’economia italiana che rischia una caduta senza ritorno. In febbraio la produzione industriale è tornata a diminuire, con una contrazione record del 25 per cento rispetto ai picchi precrisi. Le imprese manifatturiere perse fra il 2007 e il 2012 sono 70 mila. Nel trimestre novembre-gennaio, oltre 220 mila posti di lavoro sono andati in fumo. La disoccupazione giovanile ha superato il 38 per cento. È in arrivo un’ulteriore riduzione dei consumi. Sono dati nerissimi, a disposizione di tutti. Bastava leggere, sul Sole-24 Ore di sabato 16 marzo, il fondo di Fabrizio Forquet.

Eppure la sinistra italiana si occupa dei caimani. Urla «buffone» a Silvio Berlusconi mentre entra in Senato per votare. Chiude gli occhi davanti al ribellismo antagonista che a Milano assalta le banche. Si domanda se i grillini diventeranno oppure no la stampella del Pd. E Bersani manda in tv il suo senatore Maurizio Migliavacca ad annunciare che il partito firmerà per l’arresto del Cavaliere.  
Confesso che questa Italia mi fa sempre più paura. Sapete che cosa mi ricorda? Il finale di un libro profetico di George Orwell, Omaggio alla Catalogna. Al ritorno dalla guerra di Spagna, Orwell rivede la sua Londra tranquilla. Le bottiglie di latte e il giornale sulla porta delle case. I colombi a Trafalgar square. Gli autobus rossi. I policemen in blu: «Tutto dormiente del profondo, profondo sonno dal quale, temo, ci sveglieremo sotto lo scoppio delle bombe».    
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Giampaolo Pansa